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Fibrosi polmonare: 
Il tempo stinge anche il respiro

Marina Bosisio / Medicina generale (Monza)

Tra la diagnosi e l’exitus la fibrosi polmonare lascia un periodo troppo breve per tentativi terapeutici, che spesso si rivelano infruttuosi. Per non perdere il paziente occorre preventivare
con anticipo la misura radicale del trapianto di organo contattando i centri di riferimento

IL CASO – Per fortuna non è un tumore

Il signor Savino T. ha 54 anni e da circa 15 è affetto da asma bronchiale; in tutto questo tempo si è sempre curato da solo usando steroidi per bocca a dosi piuttosto massicce. Con lui non sono mai riuscito ad applicare le linee guida correnti. Quest’autunno è venuto in studio più volte lamentando un peggioramento della sintomatologia che non risponde all’aumento (deciso autonomamente) del cortisone. Pensando a una sovrainfezione, gli prescrivo un ciclo di antibiotici, senza successo. L’esame obiettivo è poco significativo, come del resto spesso succede quando lui si lamenta di stare molto male.
Dopo circa due mesi di tentativi terapeutici chiedo una radiografia del torace e le prove spirometriche che prospettano un’insufficienza respiratoria restrittiva per interstiziopatia.
Leggendo gli esiti in sua presenza devo avere avuto un’espressione preoccupata: mi torna infatti in mente un altro mio paziente, poco più che cinquantenne, che se ne è andato in sei mesi per la stessa malattia.
Cerco di spiegargli che le parole «restrittivo» e «interstiziopatia» impongono una visita pneumologica e altri esami, forse anche un breve ricovero per una tomografia computerizzata e un prelievo bioptico di un campione dall’organo. Contatto personalmente al telefono un collega pneumologo che programma un ricovero mai effettuato, perché il paziente decide di farsi seguire privatamente da un altro specialista. Questi aumenta la dose di cortisone senza benefici per Savino, ma con molti effetti collaterali: ipertensione arteriosa, edemi alle gambe, astenia, mialgie e uno stato di eccitazione aggressiva che impensierisce la famiglia.
Lui si ritiene soddisfatto di non avere un tumore e io, a malincuore, mi sforzo di far capire al mio paziente e a sua moglie quanto grave sia comunque la situazione, in contrasto con uno specialista interpellato successivamente in un’altra città, che lo tranquillizza. Comincio anche a parlare di trapianto di polmone, spiegando loro che è bene cautelarsi per tempo, qualora un giorno dovesse essere necessario. Mi sembra infatti che la situazione precipiti e lo dico alla moglie.
Sei mesi dopo la diagnosi, Savino mi chiama a casa per un forte dolore a un emitorace e peggioramento della dispnea. Sospetto un pneumotorace che viene confermato radiologicamente in ospedale e in seguito operato perché non si risolve spontaneamente. A questo punto l’insufficienza respiratoria ha raggiunto uno stadio grave.
Quando il torace viene aperto, i chirurghi riscontrano la presenza di un grosso ascesso polmonare causato da un aspergillo. La situazione precipita e Savino viene trasferito in rianimazione dove muore dopo circa una settimana. La moglie mi ha poi espresso il suo disappunto per essersi trovata impreparata alla gravità della malattia che nessuno le aveva spiegato. Io ammetto di aver avuto esitazioni a contraddire gli specialisti, togliendo al paziente e alla sua famiglia la consolazione che «per fortuna non era un tumore».

 

PULMONARY FIBROSIS
Occhio Clinico 2001; 10: 8
Key Words
Pulmonary Fibrosis; Dyspnea
Summary
The progressive worsening of dyspnea, occurring despite an ongoing treatment for airway obstruction, should arouse the suspicion that the patient is affected by a pulmonary fibrosis. The final diagnosis is only achieved after a biopsy of lung tissue, since radiological images and computed tomography do not distinguish the pathology from other interstitial affections. Pulmonary fibrosis, whose origin is not well-known, leads to death in a short lapse of time, unless lung transplantation –- the only effective measure – is carried out. In Italy there are not many centres performing the operation, and the number of annual interventions is small also because of the lack of available organs.

A prima vista sembrerebbe fuori luogo la trattazione della fibrosi polmonare idiopatica su una rivista per il medico di medicina generale, sia per la esiguità dei casi che può incontrare, sia perché la patologia richiede prevalentemente l’intervento di strutture specialistiche di secondo e terzo livello. Nel caso descritto ci sono però alcuni spunti sul ruolo che il curante può svolgere nei confronti di chi è affetto da questa patologia.
Il signor Savino era asmatico da molti anni e si curava da solo in modo alquanto approssimativo con dosi di steroide poco ortodosse e, peraltro, con efficacia dubbia. Viene da chiedersi se la scarsa risposta alla terapia cortisonica nel corso degli anni non fosse il segnale che la malattia stesse cambiando e che la diagnosi di asma non fosse più sufficiente per spiegare la dispnea.
D’altronde, però, la fase iniziale cronica paucisintomatica della fibrosi interstiziale è quasi sempre misconosciuta, perché la diagnosi viene sospettata solo quando la malattia diviene chiaramente sintomatica, il che avviene a una distanza ignota dal suo inizio. La letteratura riferisce, infatti, che la fibrosi polmonare, pur in assenza di una sintomatologia palese, può essere segnalata alla tomografia computerizzata dalla presenza di tralci fibrotici nel parenchima polmonare e, ancor prima che la diagnostica per immagini sia positiva, ci possono essere segnali istologici di interstiziopatia.
Solo di recente si è giunti alla precisa definizione della fibrosi polmonare idiopatica e alla sua distinzione da altre pneumopatie interstiziali sulla base dei dati istologici e della eziopatogenesi. La precedente confusione nosografia rende ragione delle diverse frequenze e incidenze, nonché dei diversi tassi di sopravvivenza e di risposta alle terapie riportate in letteratura. Si farà qui riferimento alla fibrosi polmonare idiopatica definita come polmonite interstiziale istologicamente confermata, in assenza di altre cause quali l’esposizione ad agenti ambientali o farmacologici, oppure le collagenopatie.
Il medico che presenta il caso racconta di avere avuto un altro paziente maschio che, in età simile a quella di Savino, è morto in sei mesi per fibrosi polmonare. La sopravvivenza media è invece di 2-3 anni, ma probabilmente anche questo dato è inficiato dal fatto che le casistiche di riferimento derivano da strutture di secondo livello, cui i soggetti con una forma più rapida non fanno neppure in tempo ad afferire.
In questo paziente la diagnosi è stata posta dopo due mesi di deterioramento respiratorio, nonostante la terapia steroidea e antibiotica; proprio la dispnea sempre più grave ha spinto il curante ad approfondire la ricerca delle sue cause.
L’affanno, prima solo durante l’esercizio fisico e poi presente anche a riposo, il respiro superficiale, la tosse persistente nonostante l’uso dei sedativi e la tachipnea sono i sintomi di presentazione; All’auscultazione del torace si apprezzano rumori diffusi che ricordano lo strappo del velcro.

1: Alla tomografia sfugge un quarto dei pazienti
Il reperto radiografico mostra nodularità e un fine reticolo soprattutto nelle aree basali e periferiche (polmone a nido d’ape). Ulteriori indagini strumentali sono illuminanti, quando non dirimenti; tra queste le prove spirometriche (che hanno stimolato il curante di Savino a cercare altrove le cause della dispnea), mostrano i reperti caratteristici del deficit respiratorio restrittivo (vedi il riquadro: 1).

 (riquadro: 1) Scambi gassosi impediti 
I reperti spirometrici sono caratterizzati da riduzione del volume residuo e della capacità polmonare totale. Il FEV1 (volume espiratorio forzato in un secondo) e la FVC (capacità vitale forzata) sono spesso ridotte, ma il loro rapporto è normale se non addirittura aumentato.
Lo studio della diffusione polmonare di monossido di carbonio (DLCO), corretta per l’emoglobina, è importante per definire il grado di deficit respiratorio e la sua evolutività nel tempo. Un calo può precedere la riduzione del volume polmonare ed è probabilmente dovuto a una contrazione del volume capillare polmonare e a uno squilibrio tra ventilazione e perfusione. L’emogasanalisi arteriosa, che inizialmente può essere normale, rivela negli stadi avanzati ipossia e alcalosi respiratoria.
L’esercizio fisico peggiora l’insufficienza respiratoria perché il gradiente di O2 alveolo capillare aumenta e la PaO2 e la saturazione di ossigeno cadono. Spesso la emogasanalisi a riposo non predice con accuratezza il deficit; pertanto, in questa malattia, lo studio dello scambio dei gas sotto sforzo è un test più sensibile per quantificare il difetto ed è un parametro utile nel monitoraggio della malattia.
La pressione polmonare aumenta (e rappresenta un indice prognostico negativo) soprattutto quando la capacità vitale scende al 50 per cento e la DLCO2 (diffusione di anidride carbonica nei polmoni) scende sotto il 45 per cento.

La caduta dell’ossimetria notturna, che spesso si accompagna a disturbi del sonno, richiede la somministrazione di ossigeno durante la notte. Questa correzione sembra migliorare la qualità del sonno e la sopravvivenza dei pazienti riducendo l’ipertensione polmonare e il cuore polmonare cronico. La TC è l’esame per immagine che permette di confermare la fibrosi polmonare: segni caratteristici di questa patologia sono le reticolazioni bibasilari subpleuriche, preferibilmente periferiche, distribuite in modo disordinato e mutevole, le immagini a vetro smerigliato, le bronchiectasie e le bronchioloectasie e le lesioni a nido d’ape subpleuriche; la TC viene utilizzata poi per valutare l’estensione della malattia, la sua progressione e la risposta alla terapia. Pur avendo una accuratezza del 90 per cento, si stima che facendo solo questo esame si perda il 25 per cento circa delle fibrosi polmonari idiopatiche diagnosticabili istologicamente.

2: Il microscopio è necessario e sufficiente
Poiché reperti simili (seppure con diverse frequenza, distribuzione e associazione tra loro) possono anche trovarsi in altri tipi di interstiziopatie, l’interpretazione delle immagini va sostenuta coi dati clinici e, quando non basta, anche con l’esame istologico, che costituisce il gold standard diagnostico.
Nel caso di Savino, questo test non è stato fatto perché clinica e quadro radiografico erano sufficientemente chiari. Purtroppo la conferma istologica può essere ottenuta solo con il prelievo bioptico, per via toracoscopica videoassistita o per via toracotomica, e non attraverso la sola broncoscopia, che non fornisce materiale idoneo per la diagnosi.
Con la broncoscopia si può invece fare il lavaggio broncoalveolare, ottenendo materiale su cui eseguire un esame citologico: se vi è riscontro di polimorfonucleati, linfociti, macrofagi e fibroblasti e dei loro prodotti quali citochine, fattori di crescita e immunocomplessi, è confermata l’origine infiammatoria della malattia, ma non è possibile, però, differenziare le varie forme di interstiziopatia.
Il riscontro bioptico, soprattutto in sede subpleurica e periferica, di infiammazione dell'interstizio polmonare, infiltrato da linfociti e plasmacellule, è indispensabile per la diagnosi di fibrosi polmonare idiopatica, in cui aree di polmone normale si alternano ad aree di fibrosi, dovuta a depositi di collagene e ricca di fibroblasti.
Si trovano poi le cosiddette lesioni a nido d’ape, spazi d’aria circondati da tessuto fibrotico contenenti materiale mucinoso alternati a iperplasia della muscolatura liscia polmonare. Sono stati fatti tentativi di valutare la prognosi: sembra che quanto più rappresentata e ricca è la cellularità e scarsa la fibrosi, tanto migliore sono la risposta alla terapia steroidea e la sopravvivenza.

3: A passi veloci dalla diagnosi all’intervento
L’invasività della procedura e la necessità di un’équipe chirurgica e anatomopatologica esperta, richiedono di selezionare i soggetti da sottoporre a biopsia: sono criteri di scelta un quadro clinico e radiografico incerto, uno stato di salute generale del paziente discreto, l’età non avanzata e la sua disponibilità a sottoporsi a soluzioni terapeutiche molto impegnative (quali il trapianto), una volta raggiunta la diagnosi precisa.
Scoprire una fibrosi polmonare è infatti solo la fase iniziale di un percorso difficile: i pazienti sono giovani e si trovano a dover affrontare una patologia quasi sconosciuta, con un decorso rapido che in poco tempo li mette nella condizione di non potersi più muovere, e per la quale non esistono terapie efficaci (vedi lo schema 1). Savino aveva paura del tumore e si è  Schema 1 tranquillizzato quando il curante l’ha escluso. E’ possibile immaginare la raffica di domande che egli ha posto al suo medico: «Di che malattia si tratta, da cosa è provocata, si può curare, quanto dura, si guarisce?» Purtroppo, le poche risposte certe non sono rassicuranti.
Infatti la terapia steroidea offre benefici limitati, se non nulli, ed è spesso gravata da effetti collaterali gravi quali diabete mellito, necrosi avascolare, miopatia, insonnia, irritabilità, astenia, facies cushingoide, depressione, acne, malattia ulcerosa (1, 4). Savino li ha sperimentati quasi tutti, compreso il fastidiosissimo cambiamento di carattere che la famiglia faticava ad accettare. La terapia steroidea viene comunque utilizzata ad alte dosi (40-100 mg di prednisone il dì) e la risposta viene valutata dopo tre mesi di terapia non solo in base alla soggettività del paziente, ma con un controllo strumentale. In caso di una buona risposta la terapia va continuata, a dosi più basse, in quanto la sua sospensione si accompagna a una recrudescenza della fibrosi.

4: Poche alternative al trapianto
Se non vi è risposta positiva o se vi è recidiva, sono state testate alternative terapeutiche con immunosoppressori, quali la ciclofosfamide  e l’azatioprina , con agenti antifibrotici come colchicina e penicillamina e con l’interferone; i risultati sono spesso deludenti, sia per la qualità di vita, sia per la sopravvivenza.
Colchicina (0,6 mg una o due volte il dì) e interferone sembrano aver dato i riscontri più interessanti. (Sono comunque trattamenti sperimentali allo studio attualmente ci sono le interleuchine) per cui è meglio che il paziente venga seguito in centri con esperienza di fibrosi polmonare ove, oltre a trovare un’assistenza multidisciplinare, viene valutato il suo inserimento nella lista di attesa per il trapianto polmonare.
Malgrado tutti i rischi chirurgici e postoperatori a breve, medio e lungo termine, il trapianto sembra a tutt’oggi l’unica chance di sopravvivenza. La lunga attesa che affligge gli aspiranti a una sostituzione di organo in Italia deve far indirizzare subito il malato ai centri di trapiantologia, soprattutto se si tratta di soggetti con le stesse caratteristiche di Savino che depongono per un’aggressività della fibrosi, quali il sesso maschile e la progressione dell’insufficienza respiratoria, nonostante gli steroidi.
Il deterioramento della diffusione polmonare di monossido di carbonio (DLCO) e la quantità di fibrosi sembrano due criteri sensibili per calcolare il tempo a disposizione per il trapianto.
In questo caso aveva pensato bene il medico curante che vedeva le condizioni del paziente deteriorare velocemente. Quando il giudizio del medico di medicina generale non si accorda con quello specialistico, può essere opportuno un ulteriore parere richiesto in centri di riferimento di terzo livello. Sarebbe infatti vantaggioso riunire tutti i casi di fibrosi polmonare idiopatica in poche unità per ottenere campioni con una numerosità tale da consentire la produzione di conoscenze sul suo decorso, sull’efficacia dei farmaci e per favorire l’accesso alle cure sperimentali.
I pazienti vanno informati nel modo più completo ed esauriente per essere realmente in grado di valutare anche le opzioni terapeutiche più aggressive.
La giovane età del paziente, l’assenza di altre malattie, la mancata risposta al prednisone, erano criteri sufficienti per indirizzarlo al trapianto, che oggi utilizza un solo polmone, con gli stessi risultati della sostituzione di entrambi e possibilità di distribuire organi a più persone. La sopravvivenza a 5 anni è 50-60 per cento. 
Savino non è arrivato all’intervento: il pneumotorace spontaneo l’ha portato a morte nel giro di pochi giorni. L’insorgenza di una dispnea acuta deve sempre far sospettare il pneumotorace anche in assenza di dolore e l’aria intrapleurica va ricercata anche con la TC, perché la radiografia semplice del torace può non bastare.
Oltre all’insufficienza respiratoria, sono cause di morte anche complicanze quali una cardiopatia coronarica e le infezioni. Queste ultime sono dovute alle bronchiectasie, alla scarsa clearance mucociliare e al reflusso gastroesofageo. Gli stessi corticosteroidi aumentano il rischio di infezione, come è avvenuto per Savino, il cui pneumotorace è stato conseguente all’infezione da aspergillo nigro, microrganismo tipico degli immunodepressi. La fase terminale della malattia è caratterizzata da grave ipertensione polmonare con cuore polmonare che non migliora con l’ossigenoterapia. Ciò pone il dilemma della ventilazione meccanica e un altro motivo per cui è imperativo informare il paziente è proprio permettergli di manifestare il suo pensiero circa le pratiche rianimatorie (vedi Occhio Clinico 2001; 7: 24).
Due studi apparsi su Chest concludono che andrebbe avviato alla ventilazione solo chi può fare un trapianto di polmone nel giro di pochi giorni perché, se l’attesa si prolunga, i pazienti muoiono entro 60 giorni, tutti trascorsi col respiratore.


5: Bibliografia
 

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  11. Stern JB et al. Prognosis of patients with advanced idiopathic pulmonary fibrosis requiring mechanical ventilation for acute respiratory failure. Chest 2001; 120: 213.
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