SOMMARIO:
1)
L'attività terapeutica
medicina
legale (indice analitico)
(a)
Liceità e fondamento
(b)
Il consenso informato nel rapporto medico-paziente
2) La chirurgia sostitutiva
(a)
Chirurgia sostitutiva con organi o parti di organi artificiali e
chirurgia del trapianto: generalità
(b)
I prelievi da vivente
(c)
I prelievi da cadavere
Note
Bibliografia
1) L'attività terapeutica
(a) Liceità e fondamento
Per trattamento medico, comprendente al suo interno anche
quello chirurgico, s'intende la prestazione professionale del
medico al fine di produrre un miglioramento nelle condizioni di
vita della persona cui la prestazione è destinata.
Per individuare quali sono i limiti di liceità e il fondamento
di tale attività occorre analizzarla cercando di stabilire
quale funzione, vale a dire fondamento etico-politico [1],
le si vuole attribuire nell'ambito dell'ordinamento giuridico.
A tal fine, si fa riferimento alla Legge Fondamentale, che
nell'articolo 32 afferma: "La Repubblica tutela la salute
come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della
collettività. Nessuno può essere obbligato ad un determinato
trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge
non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto
della persona umana". La norma in questione pone in
evidenza il carattere personalistico della Costituzione, che
riconosce e tutela i diritti inviolabili dell'uomo, tra cui la
vita, l'integrità fisica e la salute; da quest'ultimo deriva il
diritto all'assistenza medico-sanitaria. Il fondamento
etico-politico dell'attività medico-chirurgica consiste proprio
nel dovere dello Stato di assicurare a tutti gli individui tale
prestazione, poiché suo obiettivo è la persona umana e, di
conseguenza, la tutela dei suoi diritti inviolabili,
riconosciuti dall'articolo 2 della Legge Fondamentale; taluno [2]
parla di utilità umana e di adeguatezza sociale. Sono da
rispettare, però, due limiti fondamentali: la riserva di legge
per i trattamenti sanitari obbligatori e il rispetto della
dignità umana, che neanche la legge può violare. Inoltre tale
attività riveste, nel nostro ordinamento, un'importanza
fondamentale non solo per il singolo individuo, ma anche per la
comunità sociale, in virtù del valore collettivo che viene
riconosciuto al bene della salute individuale.
Da un punto di vista giuridico, l'attività medico-chirurgica può
essere considerata nell'ambito di quelle per le quali è lecito
esporsi a rischio, che rientra in quello socialmente consentito,
in quanto trattasi di attività che perseguono un'utilità
sociale, pertanto dotate di un'autorizzazione giuridica. A causa
dei rischi cui il medico stesso si espone, specialmente
nell'esecuzione di interventi di particolare difficoltà, egli
è tenuto ad adempiere a un'obbligazione di mezzi, non di
risultato, dal momento che a rilevare è un'esecuzione della
prestazione contrattuale secondo diligenza, non la garanzia di
una guarigione o di un miglioramento della salute del paziente.
E' complessa, invece, la problematica concernente la ricerca di
un fondamento tecnico-formale da conferire all'attività medico-
chirurgica. In dottrina non sussiste unanimità di consensi a
proposito del suo inquadramento, perciò si riscontrano teorie a
favore della qualificazione del trattamento medico come fatto
penalmente tipico scriminato e tesi che preferiscono configurare
l'esclusione della tipicità del comportamento, prescindendo a
priori dalla questione riguardante le cause di giustificazione.
In tema di scriminanti ci sono due scuole: quella tradizionale,
che si adopera per comprendere l'attività medico-chirurgica
all'interno delle esimenti codificate, e quella che cerca di
individuare una causa di giustificazione atipica, come tale non
prevista dalla legge.
L'impostazione tradizionale, ancorata alla riconduzione
dell'attività del medico al sistema delle cause di
giustificazione codificate, le passa in rassegna cercando quella
che meglio può adattarsi al comportamento considerato, anche se
non tutti i giuristi concordano su quale, tra quelle previste
dal Codice Penale, considerare applicabile.
Parte della dottrina [3]
sottolinea l'importanza, comunque, di considerare le scriminanti
per quella che è la disciplina legislativa che le regola, non
apportandovi modifiche per il caso specifico. Una prima
posizione è a favore del consenso dell'avente diritto, nel caso
in cui il paziente sia in grado di esprimere un valido consenso,
mentre in caso contrario ci si interroga sulla possibilità di
configurare lo stato di necessità o il consenso presunto [4].
Quanto al consenso dell'avente diritto, numerose sono le
difficoltà incontrate nel farvi rientrare l'intera attività
medico-chirurgica.
Innanzitutto, si presenta come un ostacolo insuperabile
l'articolo 5 del Codice Civile, laddove vieta atti di
disposizione del proprio corpo che diano luogo a diminuzioni
permanenti dell'integrità fisica; una strada per ovviare a tale
limite può essere quella dell'applicazione analogica
dell'articolo 50 del Codice Penale, ottenuta ampliando il
concetto di diritto disponibile fino a comprendervi le lesioni
dovute ad interventi chirurgici. Altrimenti, si può intendere
diversamente la diminuzione permanente dell'integrità fisica,
adeguandone la definizione in modo tale da permettere il
compimento di attività che costituiscono l'adempimento di una
funzione sociale; infine, per risolvere la mancanza di una
regolamentazione dei casi in cui un consenso espresso non
sussiste, si potrebbe stabilire un'equivalenza tra consenso
reale e presunto.
Nessuna di queste strade pare validamente accoglibile da parte
di quella dottrina che rifiuta il ricorso all'analogia
nell'applicazione delle norme penali; l'articolo 5 del Codice
Civile si presenta, secondo alcuni, come limite invalicabile
agli atti di disposizione del proprio corpo; sicuramente, non
sono consentiti né atti di disposizione della propria vita, né
tantomeno dell'integrità fisica, ove si tratti di lesione o
pericolo di lesione più grave rispetto a quella cui
l'intervento di per sé espone. Quindi, i trattamenti
medico-chirurgici devono comunque rispettare i limiti da tale
norma fissati, né si può invocare un loro superamento,
ricorrendo alla consuetudine o alla tesi della inapplicabilità
della norma in questione al diritto penale [5].
Per quanto riguarda il ricorso alla consuetudine, non bisogna
dimenticare, infatti, che nel nostro ordinamento c'è una
gerarchia di fonti da rispettare, il che non sarebbe possibile
consentendo che questa deroghi ad una norma di legge ordinaria,
presentandosi come consuetudine praeter legem; d'altra parte,
laddove il legislatore ha inteso derogare all'art. 5 C.C. ha
agito in modo espresso, com'è accaduto con l'emanazione delle
leggi sul trapianto di rene e di parti del fegato.
Se si sostiene, invece, che l'art. 5 non è applicabile al
diritto penale, si contravviene all'ormai accettata tesi
dell'applicabilità delle cause di giustificazione all'intero
ordinamento giuridico, per cui non si può evitare, nel caso
particolare, una valutazione in termini di compatibilità della
norma in questione con l'art. 50 del Codice Penale.
Se si prendono in considerazione le due norme congiuntamente,
quindi, il consenso dell'avente diritto è operante con i limiti
posti dalla disponibilità del diritto alla cui lesione o messa
in pericolo si può acconsentire. La scriminante si basa sul
principio dell'interesse mancante, nel senso che, prestando il
soggetto il proprio consenso, gli atti di disposizione di beni
disponibili sono giuridicamente irrilevanti; poiché il singolo
abbandona un proprio interesse, l'ordinamento rinuncia a
tutelarlo. Essa richiede, inoltre, che ci sia una libertà reale
dell'individuo di esprimere la propria volontà; nella realtà
dei fatti, però, non è molto frequente che ciò si verifichi,
perché il paziente, nel rapporto col medico, si trova, nella
maggior parte dei casi, in una posizione subalterna, facendosi
condizionare nelle proprie scelte da una persona nella quale ha
una grande fiducia. Si parla a volte di scelta indotta, per
sottolineare il condizionamento subito dal malato nelle proprie
scelte: egli tenderà a decidere in base a ciò che il medico
gli ha suggerito di fare, si può affermare che in un certo
senso sia da lui suggestionato, per cui non si può sostenere
che il consenso, in casi del genere, abbia un valore
garantistico, di tutela della libertà del paziente. Questa
disparità di posizioni si manifesta anche con riferimento alla
necessità della rappresentazione che il titolare del bene deve
avere circa l'entità della lesione che può derivargli
dall'atto dispositivo: senza di essa, il consenso non ha valore
di scriminante, in quanto si tratterebbe di un atto di volontà
a un'azione in sé considerata, senza alcun riferimento
all'effetto che può conseguire alla condotta del soggetto
agente. Ne deriva il valore fondamentale che è da attribuire al
dovere di informazione sussistente in capo al medico nei
confronti del paziente, elemento legato al livello culturale del
malato e a ciò che egli percepisce o è disposto a percepire in
ordine alle proprie condizioni di salute.
Altre voci discordanti [6]
si oppongono al richiamo della scriminante del consenso per
legittimare l'attività medico-chirurgica, sia da un punto di
vista etico, sia razionale, sia tecnico. Il consenso dell'avente
diritto è eticamente inapplicabile, perché presuppone operante
il principio dell'interesse mancante, ossia la ratio di tale
causa di giustificazione nell'ordinamento giuridico; in un campo
come questo non si può parlare di assenza di interesse, anzi,
il paziente ha un alto grado di coinvolgimento nella scelta se
disporre o no del bene, trattandosi del proprio corpo e della
propria salute. La dimostrazione di ciò sta nel fondamento
etico-politico del trattamento medico-chirurgico, vale a dire
nell'alto valore sociale che ad esso è attribuito, che
legittima un'attività finalizzata al miglioramento delle
condizioni di salute della persona; tale principio rende
inapplicabile, in ipotesi del genere, il concetto di interesse
mancante.
Anche razionalmente, la causa di giustificazione non può essere
applicata, dal momento che non è fonte di garanzie per il
malato nel suo rapporto col medico, inoltre richiede un
atteggiamento di distacco del paziente che è inaccettabile.
Infine, da un punto di vista tecnico, non si può ricorrere alla
scriminante in questione ogni qual volta si versi in ipotesi in
cui un reale consenso manchi perché il paziente non è in grado
di esprimerlo: per questi casi, è opportuno ricercare altre
strade, onde legittimare l'attività del medico. Parte della
dottrina invoca lo stato di necessità o il consenso presunto.
Lo stato di necessità [7]
può supplire al consenso, permettendo che, ove non possa
operare quest'ultimo, l'attività del medico non sia in ogni
caso ostacolata [8].
Tale scriminante comporta, comunque, delle
difficoltà nella sua applicazione, in quanto rappresenta per
molti aspetti l'esatto contrario dell'attività
medico-chirurgica: così, si pongono dei problemi quando ci si
trova a giustificare interventi in cui non sussiste un
"pericolo attuale", ma più semplicemente è
necessario operare per esigenze di prevenzione in caso di
pericolo solo potenziale, ovvero il medico deve rimediare ad un
proprio errore, volontariamente provocato, quando invece l'art.
54 richiede che il pericolo non sia stato dall'agente
"volontariamente causato"; inoltre, lo stato di
necessità, se interpretato letteralmente, legittima all'azione
indipendentemente da una manifestazione di volontà, anche
contraria, del soggetto passivo, mentre un intervento
medico-chirurgico può porsi contro la volontà del paziente
solo se quest'ultimo è fisicamente impossibilitato ad esprimere
il proprio consenso e si presume che, se avesse potuto, avrebbe
manifestato una volontà in senso positivo. Se, potendo
esprimersi, il malato manifesta una volontà contraria
all'intervento terapeutico, il sanitario deve astenersi dal
porre in essere qualsiasi attività, anche se questo ne
peggiorerà le condizioni di salute: anche se non esiste il
diritto al suicidio, ognuno è libero di trascurare la propria
salute, finanche a lasciarsi morire. Si arriverebbe, altrimenti,
a negare il principio personalistico che permea il nostro
ordinamento, e in particolare la Costituzione, mettendo in
secondo piano i diritti inviolabili dell'uomo che il suo
articolo 2 tutela. Quanto alla ratio dell'esimente considerata,
essa consiste in un atteggiamento di tolleranza e rassegnazione
dell'ordinamento giuridico, di fronte a situazioni in cui è
inesigibile un comportamento diverso da parte del soggetto
agente: l'attività del medico, invece, ha un valore positivo, a
servizio della collettività. Si può obiettare, inoltre, che la
norma codicistica non è fonte di obbligo per chi interviene, a
patto che non si tratti di persona che ha un particolare dovere
giuridico di esposizione al pericolo, mentre il medico ha il
dovere di intervenire, quando vi sia la necessità terapeutica,
che si può desumere per via consuetudinaria, ovvero dalla
disciplina relativa all'omissione di soccorso, prevista
dall'art. 593 C.P. [9].
Si sottolinea, poi, che nello stato di necessità l'intervento
del terzo è caratterizzato dalla gratuità, a parte
"un'indennità, la cui misura è rimessa all'equo
apprezzamento del giudice", prevista dall'art. 2045 del
Codice Civile, sullo stato di necessità in sede civile [10];
il medico, invece, ha diritto alla retribuzione, trattandosi di
una prestazione di carattere professionale. Ma la critica più
importante su cui può basarsi il rifiuto del richiamo dello
stato di necessità sta nel rischio, che si manifesta in tema di
trapianti, che un medico, davanti a due malati che possano
salvarsi solo con un trapianto, scelga di sacrificare la vita di
uno dei due per salvare l'altro, oppure prelevi, di propria
iniziativa, un rene ad un soggetto sano per trapiantarlo ad un
paziente che ne ha assoluto bisogno. Per queste ragioni, viene
talora preso in considerazione, in sostituzione di tale
esimente, il consenso presunto, per le situazioni, appunto,
nelle quali non è possibile che il paziente esprima la propria
volontà al trattamento. A sostegno di tale scelta, si può
affermare che, a differenza dello stato di necessità, in cui si
prescinde totalmente dal consenso del malato e, anzi, si può
contravvenire ad esso, in questo caso si cerca di ricostruirlo a
livello ipotetico, tutelando la sua libertà di
autodeterminazione. Ma anche una soluzione del genere non pare
soddisfacente per una parte della dottrina [11],
che considera l'istituto in questione come un surrogato del
consenso dell'avente diritto, richiedendo perciò che il primo
abbia lo stesso campo d'operatività del secondo e sia
sottoposto ai medesimi limiti: a questo proposito, risulta
difficile affermare che il consenso reale ed effettivo possa
essere sostituito da una mera presunzione. Non sarebbe, inoltre,
molto facile, dal lato pratico, ricercare la volontà
dell'avente diritto che non è in grado di esprimerla, con il
rischio di allungare eccessivamente i tempi per l'esecuzione
dell'intervento nella ricerca dell'elemento soggettivo.
Secondo alcuni [12],
inoltre, il consenso presunto non è proponibile sulla base
della considerazione che la ratio della scriminante di cui
all'art. 50 C.P. è rappresentata dal principio dell'interesse
mancante, qui insostenibile. In base a questa impostazione, il
consenso del paziente viene considerato imprescindibile
nell'attività medica, perciò non si può assolutamente
presumere che una persona abbia l'intenzione di rinunciare ad un
proprio diritto senza averne la certezza.
Date le notevoli difficoltà che il richiamo allo stato di
necessità e alla tematica del consenso comporta, si può
cercare di vedere se sia possibile fare ricorso ad altre
scriminanti, come l'esercizio di un diritto [13],
contemplato dall'articolo 51 del Codice Penale, in base al quale
la punibilità è esclusa nel caso in cui una persona tenga un
comportamento che costituisce esercizio di un diritto [14].
La norma in questione esprime un principio, detto di non
contraddizione, in base al quale, da un punto di vista
razionale, l'ordinamento non può punire un comportamento che
allo stesso tempo autorizza, consentendone l'esercizio. Per
diritto non s'intende soltanto il diritto soggettivo, ma si
possono ricomprendere al suo interno anche l'esercizio di
attività dotate di un'autorizzazione giuridica da parte dello
Stato, in particolare l'attività medico-chirurgica; occorre cioè
che la legge, anche implicitamente, permetta all'individuo di
esercitare quel potere giuridico che si concreta nell'azione che
altrimenti costituisce reato.
Secondo un'impostazione restrittiva [15],
i diritti rilevanti ai sensi dell'art. 51 devono essere
riconosciuti da rami dell'ordinamento giuridico extrapenali, e
alla scriminante in esame deve essere attribuito un valore
particolare nel sistema delle cause di giustificazione. Tutte
quelle codificate, infatti, possono essere definite come
attributive dell'esercizio di un diritto, ma l'art. 51 presenta
delle peculiarità: si può affermare che, mentre lo stato di
necessità è ancorato al principio dell'inesigibilità di un
comportamento diverso da quello tenuto dal soggetto agente a
causa delle circostanze, e il consenso dell'avente diritto
esclude la punibilità perché viene meno l'interesse
dell'ordinamento a punire un dato comportamento, l'esercizio di
un diritto, invece, si fonda sul principio della prevalenza
dell'interesse di cui è titolare la persona, il quale impedisce
la configurabilità di un determinato suo comportamento come
penalmente rilevante. L'ordinamento, perciò, esprime un
giudizio positivo nei confronti dell'attività posta in essere
dal medico, né potrebbe essere altrimenti; date la rilevanza e
la rischiosità, a livello sociale, di tale occupazione, essa
non potrebbe essere legittimata né da un semplice giudizio di
indifferenza, come nel caso del consenso dell'avente diritto, né
tantomeno da una valutazione di tolleranza, propria dei casi di
stato di necessità.
Se si accoglie la configurabilità di tale causa di
giustificazione, il consenso dell'avente diritto e lo stato di
necessità possono operare al più come limiti al diritto del
medico di curare, non come autonome scriminanti, superando, in
tal modo, le difficoltà e i problemi che sorgono dalla loro
applicazione.
Tuttavia, si deve sottolineare che esistono attività
giuridicamente autorizzate, il cui esercizio può essere
inquadrato, a seconda delle circostanze in cui vengono poste in
essere, come esercizio di un diritto o adempimento di un dovere,
disciplinato, anche quest'ultimo, dall'art. 51 del Codice
Penale. Da quanto detto si può dedurre che non è
soddisfacente, per l'inquadramento del trattamento
medico-chirurgico, nemmeno l'esercizio di un diritto, o almeno
non da solo, non essendo possibile ricondurvi il compimento di
attività che si qualificano come doverose. Si può affermare
anche che l'adempimento di un dovere costituisce esercizio di un
diritto, da intendersi come attribuzione di un potere giuridico
che è doveroso esercitare: si è, perciò, di fronte a casi
definibili di potere-dovere. Se si privilegia il contenuto
doveroso dell'attività esercitata, si può fare riferimento
anche all'articolo 40, 2°comma, del Codice Penale, che afferma:
"Non impedire un evento, che si ha l'obbligo giuridico di
impedire, equivale a cagionarlo"; l'obbligo giuridico potrà
risultare dalle leggi civili e professionali o dalla
consuetudine. Se, viceversa, di dà più spazio al potere
giuridico, nell'attività medica viene in maggior considerazione
il consenso del paziente, che l'esplicazione dell'attività non
deve sacrificare.
L'adempimento del dovere viene in considerazione sia nei
rapporti di diritto pubblico, sia nelle relazioni contrattuali
privatistiche: rientrano nel primo ordine di casi gli impieghi
di funzionari e agenti legati con obbligazioni di servizio allo
Stato e agli altri enti pubblici; nel secondo, l'esercizio di
servizi di pubblica necessità, quali le professioni sanitarie.
La scriminante in esame, oltre alla norma citata, a base del
reato omissivo improprio, detto anche commissivo mediante
omissione, può richiamare anche una tematica assai vasta,
quella del diritto di non curarsi, che rischia di essere
sacrificato privilegiando il carattere doveroso dell'attività
del medico. L'adempimento di un dovere, quindi, è utile al fine
di spiegare perché il medico sia tenuto ad intervenire, mentre
il potere d'intervento si basa sull'esercizio di un diritto: il
compimento dell'attività medico-chirurgica è doveroso ogni
qualvolta al potere si accompagni la sua doverosa esplicazione,
tenendo, comunque, sempre fermi i limiti imposti dal rispetto
del consenso del paziente e della dignità umana.
Non manca chi [16],
però, vede in modo negativo il richiamo a tale causa di
giustificazione, in quanto essa prescinde completamente da
qualsiasi manifestazione di volontà del titolare del bene
giuridico, mentre dal consenso del paziente non è possibile
discostarsi, tranne casi eccezionali. Legittimare l'attività
medico-chirurgica considerandola dovuta significherebbe, perciò,
imporre un determinato trattamento al paziente, soluzione
inammissibile e incompatibile con il principio personalistico
che informa la Legge Fondamentale, e questo vale non solo per
l'attività terapeutica, ma anche per i prelievi a scopo di
trapianto e la sperimentazione scientifica. Inoltre, è da
sottolineare che il richiamo all'adempimento del dovere può
presentarsi come soluzione di comodo per legittimare l'attività
del medico ed escluderne la responsabilità in caso di
violazioni di legge; il riferimento a tale scriminante risulta,
perciò, inadeguato alla realtà attuale e alle vaste
proporzioni dell'odierna chirurgia. Gran parte della dottrina [17]
è scettica, alla luce delle difficoltà che riscontra, all'idea
che il trattamento medico-chirurgico possa essere considerato in
base alle scriminanti tradizionali, perciò si segnala un
orientamento che ne ricerca il fondamento tecnico-formale in
scriminanti non codificate, create ad hoc per il settore
considerato.
Si può affermare, innanzitutto, che l'inapplicabilità del
consenso dell'avente diritto in tale ambito è dovuto alla
peculiarità della materia, per cui tale scriminante è
insufficiente a fornire una causa di liceità a un'attività
che, nonostante sia fonte di un rischio socialmente consentito,
può comunque comportare lesioni o pericoli di lesione molto
gravi, fino a mettere in pericolo la stessa vita del paziente.
Si tratta di tenere in considerazione la rilevanza sociale
dell'attività terapeutica, che fa sì che si ricerchi una
scriminante sui generis, che fornisca una giustificazione che ha
la propria base in valori che fanno capo alla collettività e
sono da considerarsi di rilievo sociale: in casi del genere, il
ricorso al consenso dell'avente diritto è inadeguato, anche se
si verte in tema di diritti disponibili.
Non mancano obiezioni a tale impostazione, che mettono in luce
le difficoltà insite nell'individuazione di una scriminante non
prevista dalla legge; numerose sono, comunque, le teorie
richiamate per dare un fondamento a tale procedimento di ricerca
[18].
Una prima spiegazione in termini di liceità basata su di una
scriminante atipica richiama il concetto di adeguatezza sociale
dell'azione [19],
cui si fa ricorso per rendere lecita l'attività
medico-chirurgica in relazione ai mezzi e agli scopi perseguiti
nel suo esercizio, intendendosi quelli che, a seconda delle
epoche storiche, sono inquadrabili nella vita collettiva e nel
suo sviluppo; si tiene conto, quindi, di diversi sistemi
normativi, espressi o taciti.
Quest'impostazione, però, non va esente da critiche, in quanto
rimane ancorata a valutazioni di carattere emozionale, dal
momento che non è facile collegare un determinato tipo di
comportamento a canoni che sono propri del vivere sociale,
costituiti da norme, anche non scritte, che si basano sulle
trasformazioni che via via caratterizzano il pensiero
collettivo.
Si è proposto anche di configurare l'esistenza di una
scriminante atipica attraverso un procedimento analogico, in
base al quale essa deriva dalla posizione, nell'ordinamento,
della norma incriminatrice del comportamento del medico, in
seguito a un'operazione di adeguamento del limite previsto dalla
scriminante codificata a quello più ampio determinato dalla
collocazione della norma che punisce il comportamento stesso:
anche questa teoria è ampiamente confutabile, dal momento che
l'ampliamento, attraverso un processo logico, dei limiti posti
da una norma giuridica, non può essere spiegato affermando che
il legislatore non ha prodotto l'adeguamento lui stesso per una
svista; il legislatore, infatti, laddove ha posto dei limiti
all'operatività delle norme giuridiche, l'ha fatto obbedendo a
una propria scelta.
Pertanto, non può essere accolta la configurazione, basata
sull'analogia, di una figura esimente concretante la necessità,
basata sul principio dell'inesigibilità, che costituisce la
ratio della scriminante tipica dello stato di necessità di cui
all'art. 54 del Codice Penale: in base a tale impostazione,
infatti, il principio di non esigibilità di un dato
comportamento è alla base di tutte le cause di giustificazione
disciplinate dalla legge, perciò è applicabile anche a quelle
non codificate. Questo ragionamento è stato respinto, perché
pecca di estrema genericità e non ne sono ben delineabili i
confini.
Il ricorso all'analogia trova un ostacolo normativo nelle
Disposizioni sulla legge in generale, il cui articolo 12 [20]
lo ammette solamente ove non sia possibile risolvere altrimenti
una controversia, mentre nulla si dice a proposito del caso in
cui si debba non colmare una lacuna normativa, ma introdurre una
nuova causa di giustificazione, che vada ad aggiungersi a quelle
che la legge già prevede. Ritenere operante una scriminante con
un procedimento che la legge non autorizza, perciò,
significherebbe andare contro la volontà del legislatore,
conferendo al giudice del caso concreto un margine di
discrezionalità inammissibile.
Lo stesso scetticismo regna nei confronti del ricorso alla
consuetudine come scriminante atipica, la cui ammissibilità nel
diritto penale è riconosciuta sia nel senso di rendere leciti
fatti che sono puniti dalla legge, sia con funzione integratrice
di essa.
Si verifica la prima ipotesi quando, in via di eccezione, si
considerano non punibili comportamenti che la legge incrimina,
rispondendo a un'esigenza di adeguare la realtà normativa a
regole sociali più moderne; questa tesi non è applicabile
all'attività medica, in quanto non la si può considerare
espressione di un comportamento rientrante nell'uso. Inoltre, la
consuetudine si porrebbe in deroga ad una norma di legge
ordinaria, quindi di rango superiore, l'articolo 5 del Codice
Civile, che presuppone che l'avente diritto acconsenta ad atti
di disposizione del proprio corpo, ma nei limiti fissati dalla
norma stessa.
Se s'intende la consuetudine in funzione di integrazione del
precetto penale, invece, si giunge a considerare una figura
assimilabile alla scriminante codificata dell'esercizio di un
diritto: così intesa, la consuetudine non assolve però una
funzione di integrazione, ben potendo far rientrare il
trattamento medico all'interno della causa di giustificazione
prevista dalla legge penale, senza prendere nemmeno in
considerazione la consuetudine.
Un'ultima via seguita [21]
è quella della gestione d'affari per legittimare il trattamento
medico; ma, a ben vedere, non siamo in presenza di una causa di
giustificazione atipica, bensì del tentativo di estendere la
portata del consenso dell'avente diritto, fino a rendere lecito
un comportamento che ha la propria fonte non nel consenso, ma
nel fatto che l'opera sia utilmente iniziata: l'inevitabile
accostamento della negotiorum gestio alla scriminante di cui
all'art. 50 ripropone tutte le problematiche sollevate
dall'applicazione di tale esimente alla condotta del medico.
Recentemente, la Relazione della Commissione Ministeriale per la
riforma del Codice Penale, istituita con Decreto Ministeriale
del 1° Ottobre 1998 [22],
presieduta dal Professore Avvocato Carlo Federico Grosso, ha
affrontato la questione relativa alla possibilità di introdurre
una causa di giustificazione ad hoc per l'attività terapeutica
e gli interventi medico-chirurgici. Già l'art. 16, n°5 dello
schema di legge-delega Pagliaro stabiliva la necessità di
considerare scriminata l'attività medico-chirurgica, a patto
che: " (a) vi sia il consenso dell'avente diritto o, in
caso di impossibilità a consentire, il suo consenso presumibile
e l'urgente necessità del trattamento; (b) il vantaggio alla
salute sia verosimilmente superiore al rischio; (c) siano
osservate le regole della migliore scienza medica". La
Commissione del Progetto Grosso, invece, si è espressa in senso
contrario, in quanto ha affermato che il rischio di intervenire
in questo settore comporterebbe un irrigidimento della
disciplina normativa, ormai ancorata a principi della prassi e
della giurisprudenza che possono ritenersi consolidati. Inoltre,
parlare di consenso presumibile richiede di affrontare un tema
molto delicato, quello cioè della corretta informazione del
paziente, argomento sul quale non sussistono ancora certezze in
campo dottrinale, tema tra l'altro non trattato dal progetto
Pagliaro. Quanto al requisito in base al quale il vantaggio alla
salute deve essere superiore al rischio per il malato, esso non
è facilmente misurabile, per cui richiederlo come presupposto
espresso di una scriminante non sarebbe accettabile per la sua
estrema genericità. Per tacere, poi, dell'osservanza delle
norme che presiedono alla determinazione della migliore scienza
ed esperienza, inquadrabili più nell'ambito della colpa che
delle esimenti. Infine, non si prenderebbero in considerazione
gli orientamenti giurisprudenziali in materia, che, quando hanno
ritenuto che il consenso non fosse abbastanza 'informato', hanno
propeso per la configurazione di delitti dolosi o
preterintenzionali contro la persona.
Il problema della liceità del trattamento medico-chirurgico è
risolto, da parte di alcuni autori [23],
a favore della sua impostazione sul terreno della tipicità,
vale a dire della riconduzione del comportamento del medico a
una condotta prevista dalla legge penale e come tale
incriminabile.
In proposito, una prima tesi distingue a seconda dell'esito del
trattamento medico-chirurgico terapeutico, compiuto secondo le
regole dell'arte medica: nel caso in cui sia favorevole, cioè
abbia prodotto la guarigione o un miglioramento della salute del
paziente, ci si trova al di fuori di una possibile
configurazione della prestazione medica come penalmente
rilevante, perché non si può parlare di fatto tipico; se,
invece, l'esito è negativo, occorre considerare se, nel caso
concreto, sussistono i presupposti per parlare di fattispecie
delittuosa o di fatto scriminato dal consenso dell'avente
diritto.
Occorre ben delineare, però, la distinzione tra esito fausto e
infausto dell'intervento chirurgico, rispetto ai casi in cui il
malato subisca una diminuzione della propria integrità fisica:
bisogna, cioè, rifarsi al concetto di malattia di cui all'art.
582 del Codice Penale, che punisce il delitto di lesione
personale. Tale figura delittuosa sussiste quando una persona
subisce una lesione dalla quale deriva una "malattia nel
corpo o nella mente"; occorre, però, precisare che cosa si
intende per malattia [24].
In giurisprudenza e in dottrina ci sono stati, in proposito,
molti contrasti, che hanno visto in opposizione due teorie
fondamentali: la concezione giuridica e quella medica. Secondo
la concezione giuridica, oggi superata, la malattia è
un'alterazione dell'integrità fisica, anche solo anatomica. Se
si segue questa impostazione, l'esito dell'intervento non ha
rilevanza, dal momento che esso integra già di per sé il reato
di lesione personale, provocando un'alterazione anatomica
dell'integrità fisica del paziente.
La tesi in esame non pare accoglibile, poiché rende molto
sottile, anzi quasi inesistente, la distinzione tra il delitto
di lesione personale e quello di percosse, cosicché si
farebbero rientrare nel primo anche le ecchimosi, le contusioni
e le abrasioni, meglio riconducibili, secondo l'impostazione
dominante, nell'ambito di operatività del secondo, di cui
all'art. 581 del Codice Penale [25].
Si giungerebbe, così facendo, all'abrogazione del delitto di
percosse.
La valorizzazione dell'esito si ha, invece, attribuendo alla
malattia un significato diverso, ossia quello di alterazione
funzionale dell'integrità fisica, alla quale può
accompagnarsene anche una anatomica, ma non necessariamente: è,
questa, la definizione di malattia in senso medico, che consente
di mantenere valida la distinzione tra le due fattispecie
delittuose. Applicando la definizione in esame al trattamento
medico-chirurgico si arriva, quindi, alla conclusione che, se
l'esito è positivo, il comportamento tenuto dal medico non è
inquadrabile come fatto tipico ai sensi dell'art. 582 del Codice
Penale, perché la malattia, integrante il fatto, rappresenta
l'esatto contrario del miglioramento di salute che il paziente
guadagna dall'intervento. La malattia in senso medico è un
processo evolutivo, per cui si differenzia nettamente dai
postumi post-operatori, caratterizzati dalla stabilità: si
pensi alla cicatrice lasciata da un intervento chirurgico. La
linea di demarcazione tra questi due concetti è netta, lo si
evince anche dal testo dell'art. 583 C.P., che si occupa delle
circostanze aggravanti della lesione personale: si parla di
"malattia o…incapacità di attendere alle ordinarie
occupazioni", evidenziando con la congiunzione
"o" che sono due concetti diversi, e nel secondo si
possono far rientrare i postumi dell'operazione.
Seguendo questo ragionamento, si presenta il problema di come
valutare l'esito infausto, in particolare per ciò che concerne
la sua imputabilità al medico. Dal momento che un evento si
verifica, occorre valutare se esso possa essere definito come
malattia e, in tal caso, quale sia il meccanismo d'imputazione
dell'evento stesso.
Innanzitutto, non si può perdere di vista il fatto che
l'esercente la professione sanitaria è intervenuto con il fine
di migliorare le condizioni di salute del paziente, per cui non
è pacifica l'affermazione secondo cui l'evento gli può essere
addebitato oggettivamente, nonostante egli si sia attenuto alle
norme cautelari da osservare nel caso concreto; sembra più
appropriato ritenere, invece, che sussista un rapporto di
causalità tra il precedente stato morboso e il peggioramento
della salute o il decesso del malato.
Sembra opportuno, perciò, prendere in considerazione la
tematica del rapporto di causalità nel diritto penale; in
merito, non sussiste uniformità di consensi.
La teoria che raccoglie più adesioni è quella della condicio
sine qua non, in base alla quale la condotta è causa
dell'evento se ne rappresenta l'elemento senza il quale esso non
si sarebbe verificato, requisito da valutare con un processo di
eliminazione mentale, che esclude dal nesso causale tutti gli
elementi che esulano da tale sistema. Chi accoglie tale
impostazione assume come referenti normativi gli articoli 40 e
41 del Codice Penale; l'art. 40 [26]
sancisce che sussiste causalità quando l'evento si presenta
come conseguenza della condotta, mentre l'art. 41, 2° comma [27],
in materia di concorso di cause, afferma che le concause
sopravvenute, se da sole hanno determinato l'evento, escludono
il rapporto di causalità.
Applicando la teoria in questione al trattamento
medico-chirurgico con esito infausto, compiuto secondo le regole
dell'arte medica, si deve verificare se, con il processo di
eliminazione mentale, senza l'intervento l'evento si sarebbe
comunque verificato: secondo i sostenitori di questo metodo, la
risposta sarà positiva, in quanto lo stato morboso precedente
del paziente avrebbe comunque seguito quel decorso. A fini
esemplificativi, si possono citare i casi di amputazione di un
arto per cancrena e la rimozione di un tumore già in fase di
metastasi; nel primo caso, le condizioni erano già tali che
l'arto non si poteva salvare, anzi, l'amputazione è compiuta
proprio per evitare la morte del paziente, mentre nella seconda
ipotesi l'intervento è inutile, perché il tumore è giunto ad
una fase irreversibile, perciò la morte, anche se
immediatamente consecutiva all'intervento, deriva dalle gravi
condizioni dell'ammalato.
Quanto alle complicanze post-operatorie, si obietta contro la
tesi secondo cui esse sono diretta conseguenza dell'intervento:
si deve per contro affermare che, se il peggioramento della
salute del paziente deriva da un errore nel trattamento
medico-chirurgico, si versa in un'ipotesi di intervento eseguito
senza osservare le regole dell'arte medica, per cui l'ambito è
quello della colpa e si verifica un caso di lesione; se, invece,
le condizioni peggiori dell'ammalato costituiscono un'evoluzione
del precedente stato morboso, anche inaspettata, il discorso si
focalizza sul nesso di causalità, che in tale ipotesi va
considerato inesistente, per cui non si può parlare di fatto
tipico.
Se si segue una diversa impostazione del problema, invece, si può
affermare che l'intervento chirurgico esula dal diritto penale
se si osservano, nella sua esecuzione, le regole dell'arte
medica. In questo caso, in tema di rapporto di causalità si
applica la teoria dell'imputazione oggettiva dell'evento, per
verificare se il comportamento del medico abbia prodotto un
aumento del rischio di verificazione del peggioramento della
salute del paziente, o se, addirittura, l'evento di danno
costituisce proprio la rappresentazione del danno che si voleva
evitare con l'osservanza della norma cautelare violata. La
teoria in esame non ha una collocazione autonoma nella materia
del rapporto di causalità, ma concerne l'ambito dell'intensità
oggettiva della colpa, che comprende in sé la violazione di una
norma cautelare.
La valutazione relativa all'aumento del rischio è utile perché
consente di saggiare se l'attività del medico abbia creato
maggiori probabilità di verificazione dell'evento: si richiede,
perciò, un giudizio che dia conto della misura oggettiva della
violazione della norma cautelare, inevitabilmente collegata al
concetto di colpa. Lo stesso legame con la colpa si ha nella
verifica che ha lo scopo di scoprire se il danno è
concretizzazione di quello che la norma cautelare tendeva ad
evitare, infatti occorre un'impostazione in termini di fini di
tutela della norma, che ha alla propria base la violazione di
una norma cautelare.
Tenendo presenti la teoria dell'imputazione oggettiva
dell'evento e l'inosservanza di regole cautelari che presiedono
all'attività medico-chirurgica, si afferma che l'elemento
fondante la responsabilità del medico è l'inosservanza di una
norma cautelare, che costituisce il punto di partenza
dell'intero discorso relativo alla responsabilità. Se non c'è
stata alcuna violazione, non si può parlare di responsabilità
del sanitario, nemmeno se l'esito dell'intervento è negativo;
una volta accertata l'avvenuta violazione, invece, si può
impostare il discorso in termini di imputazione oggettiva
dell'evento, e quindi nell'ambito di operatività della colpa.
In caso di responsabilità penale accertata per violazione della
norma, nella costruzione della misura oggettiva della colpa il
trattamento medico-chirurgico viene inquadrato come fatto
tipico, più precisamente come delitto colposo.
Chi si dichiara contrario a questa teoria e a quella che si basa
sull'esito dell'intervento [28]
afferma che quest'ultima addossa al medico una responsabilità
eccessivamente gravosa, basandosi unicamente sull'esito, senza
tenere conto delle obiettive difficoltà che caratterizzano
interventi chirurgici particolari; la tesi che prende in
considerazione l'esecuzione secondo le regole dell'arte medica,
invece, tutela il medico ma non il paziente, che può subire
lesioni alle quali non ha acconsentito e che sono conseguenza di
un'iniziativa autonoma del sanitario, che si è semplicemente
attenuto alle leges artis.
Viene proposta, in opposizione, una soluzione che tenga conto
dell'importanza che riveste il paziente nel suo rapporto
personale con il medico, cercando di conciliare le sue esigenze
con quelle dell'esercente la professione sanitaria. Il paziente
deve essere sempre l'unico a regolare l'intervento
medico-chirurgico, mentre il medico, che deve intervenire solo
se c'è il suo consenso, agisce in veste di esercente un compito
il cui valore è molto importante per la collettività: una tale
qualificazione del trattamento medico impedisce di prenderlo in
considerazione parlando di fatto tipico che possa integrare una
fattispecie delittuosa. Una distinzione deve essere fatta, ma
non tra fatto tipico e atipico, bensì tra trattamento
medico-chirurgico con o senza finalità terapeutiche. Il primo
caso è quello che viene in considerazione a livello di fatto
tipico, nel senso che, se l'attività è compiuta col consenso
del malato, e si parla di consenso- accordo, seguendo le leges
artis, qualsiasi diminuzione dell'integrità fisica del paziente
non può essere ricondotta ad alcuna fattispecie delittuosa,
nemmeno se si verifica la sua morte; questa scelta è motivata
dal fine terapeutico che caratterizza l'intervento, ossia un
miglioramento della salute. In questo caso, quindi, il consenso
non incontra i limiti che la legge pone alla scriminante di cui
all'art. 50 C.P.: è pienamente ammissibile, di conseguenza,
anche nei confronti di condotte altamente rischiose per la vita,
perché l'art. 5 del Codice Civile non è operativo: il fatto è,
pertanto, atipico.
Il discorso relativo alle scriminanti può essere valido solo
per il trattamento medico-chirurgico senza finalità
terapeutiche: in tal caso, la condotta tenuta dal medico, se
provoca una lesione dell'integrità fisica o, a fortiori, la
morte del paziente, è da considerarsi tipica, pertanto
inquadrabile tra le figure delittuose punite dal Codice Penale,
ma può essere scriminata dal consenso dell'avente diritto, se
ne ricorrono i presupposti. L'esimente opera con i limiti posti
dall'art. 5 del Codice Civile, in quanto si applicano le comuni
norme in tema di cause di giustificazione. Ne deriva la liceità,
ad esempio, della donazione di sangue [29],
qualora ci sia stata una manifestazione di volontà in tal senso
da parte del donatore: senza di essa, invece, il prelievo,
illecito, configura una condotta criminosa tipica e non
scriminabile; analogo discorso può farsi per il prelievo della
cute. In linea generale, inoltre, il consenso non può
giustificare la donazione di organi da vivente, per i limiti
insiti nell'art. 5, anche se vi sono le eccezioni del trapianto
di rene e di parte del fegato, consentiti dalla legge [30].
Tra gli interventi medico-chirurgici senza finalità
terapeutiche si annoverano, a fini esemplificativi, la chirurgia
estetica e plastica e la sterilizzazione. Gli interventi di
chirurgia estetica e plastica, innanzitutto, sono leciti sia in
caso di seria e reale indicazione medica, sia in sua assenza, se
non ne deriva una diminuzione permanente dell'integrità fisica
e il consenso non contrasta con la legge, l'ordine pubblico o il
buon costume (art. 5). La sterilizzazione, invece, è ammessa,
anche se permanente, sempre che vi sia un'indicazione medica e
l'avente diritto abbia prestato il proprio consenso; se,
viceversa, non è stata data alcuna indicazione medica, ma le
ragioni sono di tipo diverso, ad esempio sociale o eugenico,
oppure mancano del tutto, non è ben chiaro se la si possa
qualificare come lecita. Dal momento, però, che è stata
legittimata l'interruzione volontaria della gravidanza [31],
pur con alcuni limiti fissati in via legislativa, si ritiene che
si possa parlare di liceità anche in questi casi, derogando
all'art. 5 del Codice Civile, in quanto la sterilizzazione ha
come conseguenza una diminuzione permanente dell'integrità
psicofisica del soggetto passivo.
Non mancano, però, voci contrastanti con tale visione dei
trattamenti medico-chirurgici, che, pur considerandoli leciti in
presenza del consenso del paziente, sono scettiche nei confronti
della loro qualificazione sia in termini di atipicità sia nel
senso di considerare la condotta del medico giustificata dal
consenso dell'avente diritto [32].
Andrebbe esclusa, pertanto, qualsiasi certezza in ordine al
fatto che ogni trattamento terapeutico, cioè diretto ad un
miglioramento della salute del paziente, sia da considerare
atipico per la finalità che gli è propria; nella pratica,
infatti non sempre il miglioramento avviene, anzi, il più delle
volte il medico opera in situazioni nelle quali non si può
parlare di 'certezza terapeutica' e l'esito dell'intervento non
è positivo per il paziente. Se, in casi come questo, si esclude
la configurabilità della condotta come fatto tipico, risulta
priva di un'adeguata tutela l'integrità fisica del paziente,
contrariamente all'impostazione personalistica conferita dalla
Costituzione a tale bene. Secondo questo ragionamento, il
trattamento medico-chirurgico è oscillante tra la tipicità e
l'antigiuridicità. Se si sostiene, infatti, che la tipicità è
esclusa per il valore sociale da attribuire all'atto medico
terapeutico, si esprime, in realtà, un giudizio di valore,
inquadrabile nell'ambito dell'antigiuridicità e del connesso
problema delle cause di giustificazione.
(b) Il consenso informato nel rapporto
medico-paziente
E' molto importante prendere in considerazione il consenso del
paziente all'interno dei diritti garantiti dalla Costituzione.
Ai sensi dell'art. 32, 2°comma, prima parte, della Legge
Fondamentale, "Nessuno può essere obbligato a un
determinato trattamento sanitario se non per disposizione di
legge"; ne deriva, quindi, che al di là dei trattamenti
obbligatori si richiede il consenso dell'interessato.
E' fondamentale tenere distinto il consenso previsto da tale
norma, desumibile a contrario dal dettato normativo per i casi
in cui non opera la riserva di legge, dalla causa di
giustificazione del consenso dell'avente diritto, di cui
all'art. 50 del Codice Penale [33].
Mentre quest'ultima rende la condotta lecita in assenza di una
norma che la punisca, per cui si parla anche di irrilevanza
della condotta [34],
il consenso riconosciuto dalla Legge Fondamentale fissa un
requisito in mancanza del quale l'intervento chirurgico è
sempre illegittimo. La ratio di una simile scelta sta nel quadro
in cui si inserisce l'atto di volontà, che risulta essere
espressione della libertà di autodeterminazione del paziente [35].
Di conseguenza, un intervento effettuato prescindendo da esso è
da qualificare arbitrario, anche se ha prodotto un miglioramento
delle condizioni di salute dell'ammalato [36].
Questo modo di concepire il consenso ha le sue radici nel
diritto di libertà, rispetto al quale costituisce un atto di
esercizio. La garanzia data dalla necessità della sua
sussistenza è una specificazione del riconoscimento della
libertà personale, di cui all'art. 13 della Costituzione, che
sancisce i principi di riserva di legge e giurisdizione per le
restrizioni ad essa; ma il vero fondamento del consenso è di
carattere più generale, si trova sancito nella Dichiarazione
Universale dei diritti dell'uomo, il cui articolo 3 afferma:
"Ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà e alla
sicurezza della propria persona" [37].
Seguendo tale impostazione, non si parla di consenso alla
lesione o alla messa in pericolo di un bene, come nelle
scriminanti, ma di esercizio del diritto di libertà.
Quanto ai requisiti dell'atto di volontà si prenda in esame,
innanzitutto, la forma della sua manifestazione: il trattamento
medico può essere considerato conforme alla volontà del
paziente, oltre ai casi di consenso manifestato espressamente,
anche se questi non ha espresso una volontà dissenziente, il
che accade sia quando, pur essendo stato messo nelle condizioni
di esprimerla, non si è pronunciato, sia se, per la fiducia che
nutre nei confronti del proprio medico, si affida a lui
completamente, sia per fatti concludenti. Per quanto la
giurisprudenza affermi l'importanza di una manifestazione
espressa di volontà, essa ammette che in certi casi sia
configurabile un consenso tacito, "purché suffragato da
una condotta inequivocabilmente idonea ad esternare l'effettiva
volontà del paziente" .
Se, diversamente, il trattamento è attuato contro la diversa
volontà del soggetto, si versa in un'ipotesi di trattamento
arbitrario, sempre che il paziente sia capace d'intendere e di
volere; altrimenti, una volta accertata l'incapacità da parte
del medico, si può sostenere che operi il consenso presunto, se
sussistono elementi in base ai quali è legittimo ritenere che,
se fosse stato in grado, l'incapace l'avrebbe prestato.
Questo orientamento nel senso dell'ammissibilità, a livello
generale, del consenso presunto all'atto medico, ha visto però
l'opposizione della giurisprudenza, in particolare nel celebre
caso Massimo, in merito al quale si sono pronunciate la Corte
d'Assise e la Corte d'Assise d'Appello di Firenze e la Corte di
Cassazione.
La Corte d'Assise di Firenze, in 1° grado, il 18 Ottobre 1990 [38]
afferma la sussistenza della fattispecie di omicidio
preterintenzionale in capo a Carlo Massimo, primario chirurgo
all'Ospedale Careggi di Firenze, per avere eseguito un
intervento chirurgico diverso da quello concordato sulla
paziente, deceduta due mesi dopo a causa delle gravi lesioni
riportate dall'operazione.
Questa decisione valorizza l'elemento della mancanza totale di
consenso espresso della diretta interessata, escludendo la
possibilità di configurare, in casi di questo genere, un
consenso presunto che operi quale scriminante in sostituzione di
quello reale [39].
Non è sufficiente, perciò, neanche informare i parenti diretti
del soggetto passivo, che deve essere messo in grado di decidere
in merito, dato che, nel caso di specie, non si versa in
un'ipotesi di "pericolo attuale di un danno grave alla
persona", situazione concretante lo stato di necessità,
che avrebbe consentito di prescindere dal consenso espresso. La
sentenza è di grande rilievo, in quanto esamina il problema del
difficile equilibrio tra il rispetto della libertà individuale
e la tutela della salute: "..nulla il medico può fare
senza il consenso del paziente o addirittura contro il volere di
lui, il che, anche, corrisponde ad un principio personalistico
di rispetto della libertà individuale e ad una configurazione
del rapporto medico-paziente che bene la difesa di PC ha
individuato nella figura del paziente come portatore di propri
diritti fondamentali, e dunque come uomo-persona, uomo-valore e
non come uomo-cosa, uomo-mezzo, soggetto a strumentalizzazioni
anche odiose per fini che sono stati spesso ammantati di false
coperture di progresso scientifico o di utilità
collettiva". Tenuto conto del fatto che sono in gioco
diritti di carattere personale, le uniche eccezioni al consenso
espresso sono quelle in cui l'avente diritto sia incapace perché
minore o interdetto, per cui in tali casi l'atto di volontà è
manifestato dal rappresentante legale. Se, invece, l'interessato
è materialmente impossibilitato a manifestare la propria volontà,
la Corte non lo configura nella forma presunta, bensì parla di
stato di necessità, sempre che ne ricorrano i presupposti ex
art. 54: in tal caso, il medico deve essere posto in condizioni
di decidere in modo assolutamente autonomo, in quanto è la
persona che meglio può valutare la situazione concreta. La
decisione viene confermata dalla Corte d'Assise d'Appello di
Firenze, il 26 Giugno 1991, che ribadisce quanto già affermato
in primo grado, sottolineando anche che la paziente era in
condizioni gravi ancor prima dell'intervento. Anche la Corte di
Cassazione [40],
infine, si esprime in senso conforme, pertanto condanna
l'imputato per omicidio preterintenzionale.
La sentenza in questione rappresenta un'innovazione nella
concezione globale del rapporto che si instaura tra medico e
paziente, che consiste in una valorizzazione del ruolo svolto
dal consenso nella relazione terapeutica, prima concepito in
un'ottica di beneficenza o beneficialità, in base alla quale il
medico agiva sempre e in ogni caso nell'interesse del paziente,
oggi considerato un elemento imprescindibile per
l'autodeterminazione dell'individuo [41].
Fino a poco tempo fa, quindi, il medico, soprattutto il
chirurgo, godeva di una sostanziale impunità nel suo operato,
dovuta al fatto che agiva nell'interesse della persona ammalata.
Il cambiamento ha avuto inizio negli anni'60, quando il rapporto
tra medico e paziente è diventato sempre più impersonale,
grazie anche all'istituzione del Servizio Sanitario Nazionale,
con la legge
n. 833 del 1978. La responsabilità del medico, allo
stesso tempo, si è accentuata, e il malato è stato sempre più
considerato come persona dotata della capacità di decidere
autonomamente.
A sostegno di un tale mutamento di prospettiva si può fare
riferimento anche al nuovo
Codice di deontologia medica, approvato il 4 Ottobre
1998, che afferma nell'art. 30 il dovere del sanitario di
informare il paziente, tenendo in considerazione anche le sue
caratteristiche personali, per renderlo edotto delle proprie
reali condizioni e delle possibilità terapeutiche che gli si
prospettano. L'art. 32, 1° comma, sancisce che "Il medico
non deve intraprendere attività diagnostica e/o terapeutica,
senza l'acquisizione del consenso informato del paziente".
La forma prevista è quella scritta per i casi previsti dalla
legge e quelli in cui le conseguenze possono essere molto gravi
per il singolo. In ogni caso, se la prestazione diagnostica e il
trattamento terapeutico comportano un alto rischio per
l'incolumità del paziente, il medico può operare solo in casi
di assoluta necessità e previa informazione sulle conseguenze
possibili. Il nuovo Codice è diverso rispetto al precedente,
improntato al principio di beneficenza, che non teneva in debito
conto l'informazione del malato.
Considerando i requisiti del consenso, inoltre, il suo oggetto
è costituito dal singolo trattamento medico, non investendo il
risultato, essendo il medico legato al paziente da
un'obbligazione di mezzi.
L'esercente la professione sanitaria, se il paziente non pone
limitazioni alle sue prestazioni, è titolare di ampi poteri di
iniziativa; si applica il principio dell'affidamento legato a
quello di buona fede, se non sono stati stabiliti diversi
accordi tra i due soggetti.
Se si ragiona in questi termini non si pongono più i problemi
relativi alla scriminante putativa ex art. 59, 4° comma, C. P.,
inoltre si dà al paziente quella libertà di autodeterminazione
di cui è titolare, che si esplica anche nella manifestazione
del consenso a un trattamento medico-chirurgico. Il medico,
quindi, ha il compito di informare il paziente, il quale è
arbitro indiscusso della decisione di informarsi, ovvero di
affidarsi a lui, o ancora di non sottoporsi ad alcun intervento.
Il contenuto del diritto all'informazione varia a seconda del
destinatario, tenendo conto della sua personalità e anche della
sua sensibilità; egli dovrà essere informato sul trattamento
cui dovrebbe sottoporsi e sulle conseguenze che da esso possono
derivare, sulle possibili terapie e sui rischi che queste
possono comportare e sul proprio quadro clinico, come
diagnosticato dal medico [42].
Si tende ad affermare che il diritto all'informazione esiste se
è esercitato positivamente, nel momento in cui il paziente è
messo nelle condizioni di attuarlo. Secondo questa visione,
perciò, se egli ha avuto notizia del trattamento cui dovrebbe
essere sottoposto solo in linea generale e non ha dissentito, né
ha avanzato richieste d'alcun tipo al sanitario, si ritiene che
sia consenziente; sempre che non si versi, però, secondo la
giurisprudenza [43],
in casi di interventi chirurgici di un certo rilievo: in tali
ipotesi, infatti, il consenso deve essere specifico,
escludendosi la possibilità di legittimare l'attività del
chirurgo in virtù di una 'delega in bianco' conferitagli dal
paziente.
La specificità del consenso ha proprio l'obiettivo di evitare
qualunque tipo di prevaricazione da parte del sanitario,
richiedendosi, per interventi dotati di una certa rilevanza per
i beni coinvolti, un atto di volontà tanto più specifico
quanto più il rischio è elevato.
L'art. 32 della Costituzione, nella seconda parte del 2° comma,
afferma: "La legge non può in ogni caso violare i limiti
imposti dal rispetto della persona umana". Il valore della
dignità umana può essere considerato in collegamento con il
tema dei trattamenti sanitari obbligatori, potendosi ritenere
che questi siano forme d'intervento contrastanti con essa. Si può
considerare tale limite come una valorizzazione della persona e
del suo diritto alla salute in chiave individualistica, contro
un'impostazione rigidamente collettiva. E' vero che lo Stato e
la società sono tra di loro in un rapporto di connessione
funzionale, nel senso che la società pone alla persona singola
i propri fini, ma non bisogna sottovalutare il fatto che,
comunque, è dall'individuo che la società nasce, e i suoi
interessi non possono essere sacrificati per conferire un
vantaggio alla collettività globalmente intesa. I diritti
individuali, come la vita, la salute, l'integrità fisica non
possono essere compressi in nome del bene collettivo, essendo
quello della Legge Fondamentale un orientamento in chiave
personalistica.
Sono espressione di tale impostazione i limiti che si ritengono
sussistenti nella sperimentazione clinica, ammessa solo se ha
finalità terapeutiche, è accettata dal paziente come
soddisfacimento di un suo interesse e non vi sono strade
alternative già sperimentate. Si considerano vietati, invece,
gli interventi che comportano un peggioramento dell'estetica e i
prelievi e le sperimentazioni che comportano delle lesioni che
fanno perdere alla persona le sembianze umane. Analogo discorso
può farsi per la chirurgia creatrice, consistente ad esempio
nell'ingegneria genetica o nel trapianto dell'encefalo, nel
trapianto delle ghiandole sessuali, in alcuni trattamenti di
rianimazione al fine di prelevare organi per i trapianti, negli
esperimenti di ibernazione e in tutti gli interventi contrari al
diritto di morire dignitosamente.
Da uno sguardo d'insieme alla normativa in materia e ai limiti
contemplati dalla Costituzione si può evincere che il medico ha
una grossa responsabilità nell'esecuzione dell'attività
medico-chirurgica, dovendosi adoperare rispettando limiti non
sempre delineabili facilmente. Al fine di attuare la tutela
della persona, egli può adoperarsi in svariati modi; in
particolare, uno strumento efficace consiste nel rendere
effettivo il dovere d'informazione del paziente, nella scelta
del trattamento che più risponda alle esigenze del caso
concreto, nel rispetto della dignità umana e dei limiti in
generale concernenti il singolo individuo.
2) La chirurgia sostitutiva
(a) Chirurgia sostitutiva con organi o
parti di organi artificiali e chirurgia del trapianto: generalità
All'interno della chirurgia sostitutiva, ai fini giuridici,
s'impone una distinzione tra chirurgia sostitutiva con organi o
parti d'organi artificiali e chirurgia del trapianto: la prima
ha ad oggetto la sola attività diretta all'impianto, la seconda
comprende sia il prelievo sia l'impianto [44].
E' opportuno non confondere i tessuti dagli organi [45];
per tessuto s'intende un insieme di cellule che presiedono alla
medesima funzione, mentre l'organo è il risultato dell'unione
di diversi tessuti, che a loro volta possono raggrupparsi in
apparati o sistemi. Per la scienza medica, comunque, il concetto
di tessuto può essere usato in pochi casi, considerandosi
all'interno della categoria solamente i tessuti: connettivale,
epidermico, muscolare e nervoso; dato che essi di rado si
trovano allo stato puro, quello che viene considerato realmente
tale è la cornea. Si deve inoltre rilevare che il prelievo si
caratterizza diversamente, da un punto di vista pratico, a
seconda che riguardi organi o tessuti: nel primo caso si parla
di organotrapianti e occorre un intervento tempestivo che non è
necessario per i tessuti, prelevabili anche dopo alcune ore
dalla morte; i trapianti di tessuti sono anche chiamati
isotrapianti.
I trapianti possono essere:
- trapianti autoplastici o autologi o autotrapianti: c'è
identità di persona tra donatore e ricevente, per cui le parti
anatomiche sono
prelevate dallo stesso organismo in cui sono trapiantate;
- trapianti eteroplastici o eterotrapianti: il donatore
appartiene a una specie diversa da quella del ricevente;
- trapianti omoplastici od omotrapianti: il donatore ed il
ricevente appartengono alla stessa specie. Se geneticamente i
soggetti sono identici, si parla di trapianto isogenico od
isotrapianto, ed è quanto accade nel caso dei gemelli
monovulari; se, invece, sono geneticamente differenti,
l'intervento prende il nome di trapianto allogenico o
allotrapianto, ed è il caso comune di trapianto da uomo a uomo.
Sempre restando all'interno degli omotrapianti, si può
ulteriormente distinguere a seconda che essi siano eseguiti su
persona vivente o su cadavere. Il trapianto da vivente consiste
nel prelievo di una parte anatomica da un soggetto in vita e può
essere compiuto o come attività a sé stante, ovvero
nell'ambito di un intervento chirurgico a scopo terapeutico, o,
ancora, come conseguenza di una lesione altrui che richiede tale
intervento, e nel successivo impianto nel ricevente.
Il trapianto da cadavere, invece, è compiuto con un prelievo da
persona deceduta e, in seguito, con l'impianto della parte
anatomica in un soggetto in vita.
A proposito della sede in cui si esegue l'omotrapianto, invece,
esso può essere ortotopico o eterotopico.
Il trapianto ortotopico è detto anche sostitutivo e consiste
nella collocazione dell'organo nella sede di quello primitivo;
il trapianto eterotopico, invece, chiamato anche suppletivo, si
compie nei casi in cui l'impianto avviene in un'altra sede del
corpo dell'individuo, lasciando l'organo primitivo nella sua
posizione.
(b) I prelievi da vivente
La chirurgia sostitutiva con organi o parti di organi
artificiali e i trapianti da vivente a vivente, inquadrabili
all'interno della categoria della sperimentazione umana in senso
lato, presentano problemi, non tanto sotto il profilo della loro
liceità, quanto dal punto di vista delle limitazioni cui sono
soggetti.
Si vedano i limiti di liceità dei prelievi da vivente [46];
il diritto, pur con i notevoli contrasti che caratterizzano i
dibattiti in dottrina in merito ai trattamenti medico-chirurgici,
e la morale, accettano e valorizzano l'attività sperimentale in
generale e trapiantologica in particolare; si tratta, infatti,
di ricerche scientifiche che mirano a un miglioramento delle
condizioni di salute, e il diritto alla salute è tutelato anche
dalla nostra Costituzione, come diritto inviolabile dell'uomo
che assume una rilevanza sotto il profilo individuale e
collettivo.
Il problema dei limiti entro i quali tale attività può
considerarsi lecita è importante, perché è necessario che
siano posti degli argini all'attività sperimentale dell'uomo.
Secondo un'impostazione in chiave etica, la morale religiosa,
cattolica e non, e la morale laica ne riconoscono la liceità in
modo espresso.
Dal versante giuridico, inoltre, lo stesso vale per i Paesi che
sono dotati di un certo livello di tecnologia; i prelievi da
vivente e, più in generale, la sperimentazione e i trapianti,
inquadrabili nell'attività medico-chirurgica, devono essere
fatti rientrare nell'ambito delle attività che comportano un
rischio che non supera quello socialmente consentito, pertanto
autorizzate dalla legge, in quanto umanamente utili.
Mentre la chirurgia terapeutica, sia essa demolitrice,
riparatrice o sostitutiva, ha come scopo quello di migliorare la
salute del paziente, rendendo sano un soggetto che è ammalato,
i prelievi da vivente, e con essi l'attività sperimentale,
perseguono uno scopo che si colloca all'esterno rispetto alla
salute del soggetto, in quanto tendono a trasformare una persona
sana in ammalata, tramite il prelievo di una sua parte
anatomica, che si realizza attraverso trattamenti o amputazioni,
che ne possono peggiorare lo stato di salute. Le sperimentazioni
e i prelievi da vivente costituiscono, perciò, delle lesioni,
per cui possono essere considerate lecite solo se sussistono
delle motivazioni che consentono questo.
Il fondamento politico-sostanziale dell'attività
medico-chirurgica è, perciò, inquadrabile all'interno della
salvaguardia del diritto alla salute come riconosciuto dalla
Costituzione, mentre i prelievi da vivente finalizzati al
trapianto terapeutico hanno un fondamento da ricercare in
elementi estrinseci, consistenti in ragioni umanitarie e
sociali, collegati alla tutela sì della salute, ma di quella di
un soggetto diverso da colui che si sottopone al prelievo, vale
a dire di colui che ne beneficia, che si presenta come
ricevente.
La sperimentazione medica pura, invece, ha un fondamento
politico-sostanziale ancora diverso, in quanto consiste nel
progresso della medicina e della ricerca scientifica in
generale, cui la Costituzione fa espresso riferimento, laddove
riconosce la libertà della scienza, nell'art. 33, il dovere
della Repubblica di incoraggiare la ricerca tecnica e
scientifica, nell'art. 9, e il diritto alla salute
nell'interesse dell'intera collettività, nell'art. 32.
Quanto al fondamento politico-formale, sui trapianti da vivente
a vivente valgono le varie teorie formulate in materia per il
trattamento medico-chirurgico in senso ampio.
Per ciò che concerne i limiti di tale attività, ve ne sono di
oggettivi e soggettivi [47].
Tra i limiti oggettivi vi sono, innanzitutto, il diritto alla
salute, alla vita e all'integrità fisica del donatore, sanciti
rispettivamente dagli articoli 32 della Legge Fondamentale, 579
del Codice Penale e 5 del Codice Civile; da questa disciplina
normativa si evince l'illiceità dei prelievi di organi unici e
doppi.
Fanno eccezione il rene e il fegato: il prelievo di un rene a
scopo di trapianto è consentito dalla Legge
n° 458, del 26 Giugno 1967 [48],
recante norme sul "Trapianto del rene tra persone
viventi", quello di parte del fegato dalla Legge
16 Dicembre 1999, n. 483, contenente "Norme per
consentire il trapianto parziale di fegato", che rinvia,
per quanto compatibile, alla disciplina sul trapianto di rene.
Entrambe si pongono al limite della legittimità costituzionale,
in quanto ammettono la possibilità di una diminuzione
permanente dell'integrità fisica della persona, e inoltre
creano in capo al potenziale donatore uno stato psicofisico di
angoscia, ponendolo di fronte all'alternativa tra un gesto
coraggioso, ma pregiudizievole per la sua salute, e un rimorso
di coscienza, nel caso in cui scelga di non compierlo.
Per quanto riguarda il rene, il prelievo è ammesso perché si
tratta di un organo doppio, e senza uno dei due un individuo può
comunque vivere senza essere impedito nelle sue attività.
Relativamente al fegato, che invece è un organo unico, esso ha
l'attitudine a rigenerarsi, inoltre si afferma anche che, se
l'intervento ha ad oggetto delle piccole parti, non
necessariamente il donatore subisce una riduzione permanente
dell'integrità fisica.
L'autorizzazione deve essere data con la previa certificazione
di idoneità e istocompatibilità conferita dalla struttura
sanitaria incaricata dell'intervento, in seguito al parere
favorevole di un collegio medico, che redige processo verbale
all'Azienda Ospedaliera, la quale lo trasmette poi al giudice;
l'operatività dell'autorizzazione viene curata da un decreto
del giudice competente per territorio, ossia quello del luogo di
residenza del donatore o in cui ha sede la struttura sanitaria
autorizzata, entro il termine di trenta giorni decorrenti
dall'istanza relativa al trapianto. Il giudice, inoltre, deve
accertare quale sia l'età del donatore e se sia capace
d'intendere e di volere, nonché se questi sia a conoscenza dei
limiti insiti nella terapia trapiantologica e delle conseguenze
che il suo fisico dovrà sopportare in seguito all'operazione
(art. 2, l. 458/1967). E', inoltre, vietata la pattuizione di
compensi privati: si afferma, infatti, che la donazione è, in
quanto tale, a titolo gratuito. Per cercare di rendere più
raggiungibile tale obiettivo, si accorda prevalenza, tra i
donatori, ai consanguinei, cioè le persone che meno delle altre
si presume siano animate da finalità speculative. La legge in
esame persegue l'obiettivo di tutelare il donatore, assicurando
controlli in merito alla necessità dell'intervento al fine di
salvare la vita del ricevente e, infine, dando garanzie in
merito alla sicurezza dello stesso. L'esistenza di questa
disciplina normativa rafforza ancora di più la radicata
convinzione di chi afferma [49]
che l'art. 5 del Codice Civile costituisce un limite applicabile
anche nel settore medico-chirurgico, in quanto consente di
dimostrare che, a patto che il legislatore non intervenga
espressamente derogando alla legge, rimane fermo il divieto
sancito dalla norma in questione. Lo affermano espressamente
entrambe le leggi, che nell'art. 1 esordiscono con la frase:
"In deroga al divieto di cui all'articolo 5 del Codice
Civile…".
In senso contrario [50],
alcuni affermano che non si è in presenza di vere e proprie
deroghe, altrimenti entrambe le normative avrebbero fissato una
disciplina differente da quella contemplata dall'art. 5, mentre
invece si sono spinte oltre, creando una regolamentazione
pubblicistica della materia, perciò estranea ai rapporti
privatistici, quindi l'atto di disposizione rappresenta un atto
di destinazione di rilevanza generale. In base alle leggi
considerate, quindi, i limiti fissati dall'art. 5 sono
inapplicabili, se si tiene conto del miglioramento della salute
del ricevente, mettendolo a confronto con il sacrificio patito
dal donatore. Se si preferisce tale impostazione a quella in
senso rigorosamente civilistico, che è comunque prevalente, si
propende per un'interpretazione delle discipline in esame nel
senso di un ampliamento del concetto di disponibilità del
diritto, dilatandone il significato rispetto alla dicitura
dell'art. 50 del Codice Penale sul consenso dell'avente diritto,
con la conseguenza che l'art. 5 non è nemmeno preso in
considerazione. L'estensione, perciò, si basa sul modo di
applicazione della scriminante, ossia sul principio del
bilanciamento di interessi, quello del donatore e quello del
ricevente. Inoltre, sono previste delle cautele relative al
meccanismo autorizzatorio, che fa capo a un magistrato.
L'opinione dominante, però, è nel senso di ritenere le
normative sul trapianto di rene e di parte del fegato delle
deroghe all'art. 5.
Dai limiti oggettivi operanti per i prelievi da vivente deriva
la necessità che siano verificate: l'idoneità fisica di chi si
sottopone al prelievo, la necessità terapeutica dell'intervento
e l'idoneità del luogo dove questo dev'essere effettuato [51].
Un altro limite oggettivo è dato dal principio di tutela della
dignità umana, sancito dagli articoli 3, 41 e 32 della
Costituzione, che impedisce interventi deturpanti o alteranti le
sembianze umane del donatore; infine, un ulteriore freno è
rappresentato dal principio di uguaglianza e pari dignità degli
uomini davanti alla legge, riconosciuto dall'art. 3 della Legge
Fondamentale, dal quale deriva il divieto di operare
discriminazioni, quali possono essere la sottoposizione a
prelievo di soggetti molto malati o di provenienza etnica
diversa o culturalmente più arretrati.
A livello soggettivo, il limite è dato dal consenso del
donatore, che deve essere determinato alla donazione
"liberamente e spontaneamente" (art. 2, l. sul
trapianto di rene e art. 1, l. sul trapianto di fegato, che
rinvia alla prima).
Si può notare, in proposito, una differenza tra le normative
sul trapianto di rene e fegato e la Legge n° 107 del 1990, che
disciplina la donazione di sangue: mentre quest'ultima richiede
il semplice consenso, per i trapianti inter vivos esiste una
rete informativa burocratizzata: il motivo è da ricercare nel
diverso grado di tutela che il donatore deve ricevere nei due
casi, dato che con la donazione di sangue non si verifica mai
una diminuzione permanente dell'integrità fisica del soggetto,
mentre non si può dire lo stesso per i trapianti.
(c) I prelievi da cadavere
Il trapianto d'organi post-mortem presenta problemi e pone
interrogativi dal punto di vista sia giuridico che etico, date
le implicazioni che derivano dal dibattito in tema di volontà
alla donazione.
La regolamentazione normativa della materia ha subito dei
cambiamenti con il passare degli anni, infatti si è passati da
una legislazione rigida, che operava una classificazione degli
organi passibili di trapianto, a una più flessibile, che
consente tale intervento per tutti gli organi, eccettuati alcuni
in particolare per i quali espressamente lo vieta.
Il dibattito sull'argomento si è fatto sempre più acceso, dato
il crescente interesse dell'opinione pubblica in materia, legato
anche al progresso scientifico, che consente oggi di tutelare il
diritto alla vita e alla salute grazie a tecniche in continua
evoluzione, anche in tema di trapianti.
Un problema, però, è rimasto: le offerte sono sempre inferiori
alla domande, e ciò nonostante ci sia una maggiore attenzione
della popolazione per queste tematiche rispetto al passato.
Le strade percorribili per risolvere questo problema sono
principalmente tre: la creazione di un mercato d'organi, il
consenso presunto, il consenso espresso [52].
La scelta di istituire un mercato d'organi, seguendo il modello
del market oriented approach, non pare sostenibile, in quanto
sembra troppo drastica; anche creando appositamente un sistema
assicurativo per la loro vendita, infatti, non sarebbero risolti
alcuni problemi, tra cui quello di fissare i prezzi.
Il consenso presunto, quale soluzione allo squilibrio tra
domanda e offerta, è stato adottato in molti paesi stranieri e
in Italia, mentre quello espresso è stato introdotto in altri
paesi, ognuno dei quali l'ha dotato di regole specifiche.
Il risultato del recepimento di tali differenti modelli, però,
non ha risolto il problema, neanche con il recente inserimento
del sistema del silenzio-assenso, introdotto dalla Legge
1° Aprile 1999, n. 91 [53].
Un problema che il trapianto post-mortem pone è, innanzitutto,
quello della verifica dell'esistenza di un diritto di disporre
del proprio corpo dopo la morte e, in caso affermativo, della
sua natura. Mentre, da un lato, si ammette che tale situazione
giuridica esista, non c'è, dall'altro, concordia sulla sua
natura giuridica, in particolare in ordine alla sua
configurabilità come diritto della personalità o come diritto
reale.
Se si propende per una qualificazione come diritto della
personalità si può richiamare l'art. 2 della Costituzione, che
riconosce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo, sia
nelle formazioni sociali dove si svolge la sua personalità, e
farvi rientrare anche quello relativo alla disposizione del
proprio cadavere. A una simile impostazione, però, si può
obiettare che la norma in questione trova applicazione per le
situazioni giuridiche che fanno capo alla persona vivente,
mentre la morte recide il legame sussistente tra l'uomo e il suo
corpo, che con il decesso non è più il supporto della persona,
ma diventa cadavere [54].
Qualora, invece, si ritenga di essere in presenza di un diritto
reale, occorre innanzitutto precisare che il corpo umano si
sottrae alle regole comuni del mercato. Il diritto dei familiari
sul cadavere del congiunto avrebbe la propria fonte o nella pietà
per il defunto, se lo si considera un bene fuori commercio,
oppure in un mandato tacito per la tutela del corpo dopo la
morte, trasmesso dal defunto ai parenti. Il cadavere è, quindi,
una res: essendo l'alternativa tra cosa e persona, delle due
l'una. Si tratta, però, di una res sui generis, che si sottrae
alle norme sia di diritto privato sulle cose comuni, sia di
diritto penale.
La particolarità del cadavere, infatti, consiste nel suo essere
la "proiezione ultraesistenziale della persona umana"
[55],
quindi esso mantiene una dignità che lo differenzia da tutte le
altre cose in senso giuridico.
Si può intendere il diritto dei congiunti sul cadavere in due
accezioni diverse, quanto alla natura originaria o derivativa
dello stesso: nel primo caso, infatti, i familiari sarebbero
titolari di un diritto jure proprio, mentre nel secondo essi
acquisterebbero un diritto a titolo derivativo.
Al cadavere fanno capo, in definitiva, diversi interessi
congiuntamente:
- l'interesse individuale del singolo, ossia della persona
vivente, alla considerazione del suo cadavere come inviolabile,
in quanto proiezione della propria persona oltre la vita;
- l'interesse dei familiari, che ha per oggetto l'inviolabilità
del cadavere del congiunto, in virtù dell'affetto e della pietà
che essi nutrono per esso;
- l'interesse collettivo, riferibile alla società,
all'intangibilità dei cadaveri, per un sentimento di pietà,
legato più in generale al rispetto per i morti, principio che
ha un'origine antica nel pensiero umano;
- l'interesse pubblico, di carattere igienico-sanitario, che
consiste nel bisogno di eliminare i cadaveri con cerimonie
funebri, in quanto rappresentano fonti di pericolo per la salute
della collettività.
I prelievi da defunto trovano un fondamento di carattere
politico-sostanziale in chiave di liceità in principi morali e
giuridici.
Per quanto riguarda la liceità sulla base di principi etici, la
morale religiosa, cattolica e non, e la morale laica la
riconoscono pienamente; giuridicamente, come per i prelievi da
vivente, ha rilievo la tutela della salute. Il fondamento
politico-formale, invece, genera non pochi contrasti, che si
sono presentati anche per l'attività medico-chirurgica in senso
ampio. Sussistono dei limiti di carattere oggettivo [56],
rappresentati innanzitutto dall'esigenza di tutelare la vita,
diritto inviolabile, il che comporta che il prelievo debba
essere diretto su di un soggetto realmente defunto.
Questo principio determina la necessità di risolvere il
problema relativo alla determinazione del momento di
accertamento della morte, che deve essere chiaro e univoco.
Inoltre, deve essere rispettata la dignità umana, che impedisce
che, dopo il decesso, si tenti di far rimanere artificialmente
vivo il battito cardiaco di una persona deceduta, costringendola
a una vita da "uomo-pianta", come è stata definita.
Importante è il rispetto del principio di uguaglianza e pari
dignità, che prevede il divieto di trattamenti discriminatori
tra gli individui, sia in rapporto all'accertamento della morte,
sia in relazione alla disposizione del cadavere con modalità
privilegiate dettate da una determinata posizione sociale.
Un limite di carattere soggettivo è, invece, legato all'atto di
volontà del donatore in vita, che consiste nella necessità di
non opposizione del soggetto stesso. Il tema è al centro della
nuova normativa sulla donazione di organi, disciplinata dalla
Legge n. 91/1999 [57].
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