Il trattamento medico-chirurgico, e terapeutico: aspetti giuridici e medico-legali


Dott.ssa Carlotta Cassani

SOMMARIO:

1) L'attività terapeutica

medicina legale (indice analitico)

(a) Liceità e fondamento

(b) Il consenso informato nel rapporto medico-paziente

2) La chirurgia sostitutiva

(a) Chirurgia sostitutiva con organi o parti di organi artificiali e chirurgia del trapianto: generalità

(b) I prelievi da vivente

(c) I prelievi da cadavere

Note

Bibliografia


1) L'attività terapeutica

(a) Liceità e fondamento

Per trattamento medico, comprendente al suo interno anche quello chirurgico, s'intende la prestazione professionale del medico al fine di produrre un miglioramento nelle condizioni di vita della persona cui la prestazione è destinata.
Per individuare quali sono i limiti di liceità e il fondamento di tale attività occorre analizzarla cercando di stabilire quale funzione, vale a dire fondamento etico-politico [1], le si vuole attribuire nell'ambito dell'ordinamento giuridico.
A tal fine, si fa riferimento alla Legge Fondamentale, che nell'articolo 32 afferma: "La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività. Nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana". La norma in questione pone in evidenza il carattere personalistico della Costituzione, che riconosce e tutela i diritti inviolabili dell'uomo, tra cui la vita, l'integrità fisica e la salute; da quest'ultimo deriva il diritto all'assistenza medico-sanitaria. Il fondamento etico-politico dell'attività medico-chirurgica consiste proprio nel dovere dello Stato di assicurare a tutti gli individui tale prestazione, poiché suo obiettivo è la persona umana e, di conseguenza, la tutela dei suoi diritti inviolabili, riconosciuti dall'articolo 2 della Legge Fondamentale; taluno [2] parla di utilità umana e di adeguatezza sociale. Sono da rispettare, però, due limiti fondamentali: la riserva di legge per i trattamenti sanitari obbligatori e il rispetto della dignità umana, che neanche la legge può violare. Inoltre tale attività riveste, nel nostro ordinamento, un'importanza fondamentale non solo per il singolo individuo, ma anche per la comunità sociale, in virtù del valore collettivo che viene riconosciuto al bene della salute individuale.
Da un punto di vista giuridico, l'attività medico-chirurgica può essere considerata nell'ambito di quelle per le quali è lecito esporsi a rischio, che rientra in quello socialmente consentito, in quanto trattasi di attività che perseguono un'utilità sociale, pertanto dotate di un'autorizzazione giuridica. A causa dei rischi cui il medico stesso si espone, specialmente nell'esecuzione di interventi di particolare difficoltà, egli è tenuto ad adempiere a un'obbligazione di mezzi, non di risultato, dal momento che a rilevare è un'esecuzione della prestazione contrattuale secondo diligenza, non la garanzia di una guarigione o di un miglioramento della salute del paziente.
E' complessa, invece, la problematica concernente la ricerca di un fondamento tecnico-formale da conferire all'attività medico- chirurgica. In dottrina non sussiste unanimità di consensi a proposito del suo inquadramento, perciò si riscontrano teorie a favore della qualificazione del trattamento medico come fatto penalmente tipico scriminato e tesi che preferiscono configurare l'esclusione della tipicità del comportamento, prescindendo a priori dalla questione riguardante le cause di giustificazione.
In tema di scriminanti ci sono due scuole: quella tradizionale, che si adopera per comprendere l'attività medico-chirurgica all'interno delle esimenti codificate, e quella che cerca di individuare una causa di giustificazione atipica, come tale non prevista dalla legge.
L'impostazione tradizionale, ancorata alla riconduzione dell'attività del medico al sistema delle cause di giustificazione codificate, le passa in rassegna cercando quella che meglio può adattarsi al comportamento considerato, anche se non tutti i giuristi concordano su quale, tra quelle previste dal Codice Penale, considerare applicabile.
Parte della dottrina [3] sottolinea l'importanza, comunque, di considerare le scriminanti per quella che è la disciplina legislativa che le regola, non apportandovi modifiche per il caso specifico. Una prima posizione è a favore del consenso dell'avente diritto, nel caso in cui il paziente sia in grado di esprimere un valido consenso, mentre in caso contrario ci si interroga sulla possibilità di configurare lo stato di necessità o il consenso presunto [4].
Quanto al consenso dell'avente diritto, numerose sono le difficoltà incontrate nel farvi rientrare l'intera attività medico-chirurgica.
Innanzitutto, si presenta come un ostacolo insuperabile l'articolo 5 del Codice Civile, laddove vieta atti di disposizione del proprio corpo che diano luogo a diminuzioni permanenti dell'integrità fisica; una strada per ovviare a tale limite può essere quella dell'applicazione analogica dell'articolo 50 del Codice Penale, ottenuta ampliando il concetto di diritto disponibile fino a comprendervi le lesioni dovute ad interventi chirurgici. Altrimenti, si può intendere diversamente la diminuzione permanente dell'integrità fisica, adeguandone la definizione in modo tale da permettere il compimento di attività che costituiscono l'adempimento di una funzione sociale; infine, per risolvere la mancanza di una regolamentazione dei casi in cui un consenso espresso non sussiste, si potrebbe stabilire un'equivalenza tra consenso reale e presunto.
Nessuna di queste strade pare validamente accoglibile da parte di quella dottrina che rifiuta il ricorso all'analogia nell'applicazione delle norme penali; l'articolo 5 del Codice Civile si presenta, secondo alcuni, come limite invalicabile agli atti di disposizione del proprio corpo; sicuramente, non sono consentiti né atti di disposizione della propria vita, né tantomeno dell'integrità fisica, ove si tratti di lesione o pericolo di lesione più grave rispetto a quella cui l'intervento di per sé espone. Quindi, i trattamenti medico-chirurgici devono comunque rispettare i limiti da tale norma fissati, né si può invocare un loro superamento, ricorrendo alla consuetudine o alla tesi della inapplicabilità della norma in questione al diritto penale [5].
Per quanto riguarda il ricorso alla consuetudine, non bisogna dimenticare, infatti, che nel nostro ordinamento c'è una gerarchia di fonti da rispettare, il che non sarebbe possibile consentendo che questa deroghi ad una norma di legge ordinaria, presentandosi come consuetudine praeter legem; d'altra parte, laddove il legislatore ha inteso derogare all'art. 5 C.C. ha agito in modo espresso, com'è accaduto con l'emanazione delle leggi sul trapianto di rene e di parti del fegato.
Se si sostiene, invece, che l'art. 5 non è applicabile al diritto penale, si contravviene all'ormai accettata tesi dell'applicabilità delle cause di giustificazione all'intero ordinamento giuridico, per cui non si può evitare, nel caso particolare, una valutazione in termini di compatibilità della norma in questione con l'art. 50 del Codice Penale.
Se si prendono in considerazione le due norme congiuntamente, quindi, il consenso dell'avente diritto è operante con i limiti posti dalla disponibilità del diritto alla cui lesione o messa in pericolo si può acconsentire. La scriminante si basa sul principio dell'interesse mancante, nel senso che, prestando il soggetto il proprio consenso, gli atti di disposizione di beni disponibili sono giuridicamente irrilevanti; poiché il singolo abbandona un proprio interesse, l'ordinamento rinuncia a tutelarlo. Essa richiede, inoltre, che ci sia una libertà reale dell'individuo di esprimere la propria volontà; nella realtà dei fatti, però, non è molto frequente che ciò si verifichi, perché il paziente, nel rapporto col medico, si trova, nella maggior parte dei casi, in una posizione subalterna, facendosi condizionare nelle proprie scelte da una persona nella quale ha una grande fiducia. Si parla a volte di scelta indotta, per sottolineare il condizionamento subito dal malato nelle proprie scelte: egli tenderà a decidere in base a ciò che il medico gli ha suggerito di fare, si può affermare che in un certo senso sia da lui suggestionato, per cui non si può sostenere che il consenso, in casi del genere, abbia un valore garantistico, di tutela della libertà del paziente. Questa disparità di posizioni si manifesta anche con riferimento alla necessità della rappresentazione che il titolare del bene deve avere circa l'entità della lesione che può derivargli dall'atto dispositivo: senza di essa, il consenso non ha valore di scriminante, in quanto si tratterebbe di un atto di volontà a un'azione in sé considerata, senza alcun riferimento all'effetto che può conseguire alla condotta del soggetto agente. Ne deriva il valore fondamentale che è da attribuire al dovere di informazione sussistente in capo al medico nei confronti del paziente, elemento legato al livello culturale del malato e a ciò che egli percepisce o è disposto a percepire in ordine alle proprie condizioni di salute.

Altre voci discordanti [6] si oppongono al richiamo della scriminante del consenso per legittimare l'attività medico-chirurgica, sia da un punto di vista etico, sia razionale, sia tecnico. Il consenso dell'avente diritto è eticamente inapplicabile, perché presuppone operante il principio dell'interesse mancante, ossia la ratio di tale causa di giustificazione nell'ordinamento giuridico; in un campo come questo non si può parlare di assenza di interesse, anzi, il paziente ha un alto grado di coinvolgimento nella scelta se disporre o no del bene, trattandosi del proprio corpo e della propria salute. La dimostrazione di ciò sta nel fondamento etico-politico del trattamento medico-chirurgico, vale a dire nell'alto valore sociale che ad esso è attribuito, che legittima un'attività finalizzata al miglioramento delle condizioni di salute della persona; tale principio rende inapplicabile, in ipotesi del genere, il concetto di interesse mancante.
Anche razionalmente, la causa di giustificazione non può essere applicata, dal momento che non è fonte di garanzie per il malato nel suo rapporto col medico, inoltre richiede un atteggiamento di distacco del paziente che è inaccettabile.
Infine, da un punto di vista tecnico, non si può ricorrere alla scriminante in questione ogni qual volta si versi in ipotesi in cui un reale consenso manchi perché il paziente non è in grado di esprimerlo: per questi casi, è opportuno ricercare altre strade, onde legittimare l'attività del medico. Parte della dottrina invoca lo stato di necessità o il consenso presunto.
Lo stato di necessità [7] può supplire al consenso, permettendo che, ove non possa operare quest'ultimo, l'attività del medico non sia in ogni caso ostacolata [8]. Tale scriminante comporta, comunque, delle
difficoltà nella sua applicazione, in quanto rappresenta per molti aspetti l'esatto contrario dell'attività medico-chirurgica: così, si pongono dei problemi quando ci si trova a giustificare interventi in cui non sussiste un "pericolo attuale", ma più semplicemente è necessario operare per esigenze di prevenzione in caso di pericolo solo potenziale, ovvero il medico deve rimediare ad un proprio errore, volontariamente provocato, quando invece l'art. 54 richiede che il pericolo non sia stato dall'agente "volontariamente causato"; inoltre, lo stato di necessità, se interpretato letteralmente, legittima all'azione indipendentemente da una manifestazione di volontà, anche contraria, del soggetto passivo, mentre un intervento medico-chirurgico può porsi contro la volontà del paziente solo se quest'ultimo è fisicamente impossibilitato ad esprimere il proprio consenso e si presume che, se avesse potuto, avrebbe manifestato una volontà in senso positivo. Se, potendo esprimersi, il malato manifesta una volontà contraria all'intervento terapeutico, il sanitario deve astenersi dal porre in essere qualsiasi attività, anche se questo ne peggiorerà le condizioni di salute: anche se non esiste il diritto al suicidio, ognuno è libero di trascurare la propria salute, finanche a lasciarsi morire. Si arriverebbe, altrimenti, a negare il principio personalistico che permea il nostro ordinamento, e in particolare la Costituzione, mettendo in secondo piano i diritti inviolabili dell'uomo che il suo articolo 2 tutela. Quanto alla ratio dell'esimente considerata, essa consiste in un atteggiamento di tolleranza e rassegnazione dell'ordinamento giuridico, di fronte a situazioni in cui è inesigibile un comportamento diverso da parte del soggetto agente: l'attività del medico, invece, ha un valore positivo, a servizio della collettività. Si può obiettare, inoltre, che la norma codicistica non è fonte di obbligo per chi interviene, a patto che non si tratti di persona che ha un particolare dovere giuridico di esposizione al pericolo, mentre il medico ha il dovere di intervenire, quando vi sia la necessità terapeutica, che si può desumere per via consuetudinaria, ovvero dalla disciplina relativa all'omissione di soccorso, prevista dall'art. 593 C.P. [9]. Si sottolinea, poi, che nello stato di necessità l'intervento del terzo è caratterizzato dalla gratuità, a parte "un'indennità, la cui misura è rimessa all'equo apprezzamento del giudice", prevista dall'art. 2045 del Codice Civile, sullo stato di necessità in sede civile [10]; il medico, invece, ha diritto alla retribuzione, trattandosi di una prestazione di carattere professionale. Ma la critica più importante su cui può basarsi il rifiuto del richiamo dello stato di necessità sta nel rischio, che si manifesta in tema di trapianti, che un medico, davanti a due malati che possano salvarsi solo con un trapianto, scelga di sacrificare la vita di uno dei due per salvare l'altro, oppure prelevi, di propria iniziativa, un rene ad un soggetto sano per trapiantarlo ad un paziente che ne ha assoluto bisogno. Per queste ragioni, viene talora preso in considerazione, in sostituzione di tale esimente, il consenso presunto, per le situazioni, appunto, nelle quali non è possibile che il paziente esprima la propria volontà al trattamento. A sostegno di tale scelta, si può affermare che, a differenza dello stato di necessità, in cui si prescinde totalmente dal consenso del malato e, anzi, si può contravvenire ad esso, in questo caso si cerca di ricostruirlo a livello ipotetico, tutelando la sua libertà di autodeterminazione. Ma anche una soluzione del genere non pare soddisfacente per una parte della dottrina [11], che considera l'istituto in questione come un surrogato del consenso dell'avente diritto, richiedendo perciò che il primo abbia lo stesso campo d'operatività del secondo e sia sottoposto ai medesimi limiti: a questo proposito, risulta difficile affermare che il consenso reale ed effettivo possa essere sostituito da una mera presunzione. Non sarebbe, inoltre, molto facile, dal lato pratico, ricercare la volontà dell'avente diritto che non è in grado di esprimerla, con il rischio di allungare eccessivamente i tempi per l'esecuzione dell'intervento nella ricerca dell'elemento soggettivo.
Secondo alcuni [12], inoltre, il consenso presunto non è proponibile sulla base della considerazione che la ratio della scriminante di cui all'art. 50 C.P. è rappresentata dal principio dell'interesse mancante, qui insostenibile. In base a questa impostazione, il consenso del paziente viene considerato imprescindibile nell'attività medica, perciò non si può assolutamente presumere che una persona abbia l'intenzione di rinunciare ad un proprio diritto senza averne la certezza.
Date le notevoli difficoltà che il richiamo allo stato di necessità e alla tematica del consenso comporta, si può cercare di vedere se sia possibile fare ricorso ad altre scriminanti, come l'esercizio di un diritto [13], contemplato dall'articolo 51 del Codice Penale, in base al quale la punibilità è esclusa nel caso in cui una persona tenga un comportamento che costituisce esercizio di un diritto [14]. La norma in questione esprime un principio, detto di non contraddizione, in base al quale, da un punto di vista razionale, l'ordinamento non può punire un comportamento che allo stesso tempo autorizza, consentendone l'esercizio. Per diritto non s'intende soltanto il diritto soggettivo, ma si possono ricomprendere al suo interno anche l'esercizio di attività dotate di un'autorizzazione giuridica da parte dello Stato, in particolare l'attività medico-chirurgica; occorre cioè che la legge, anche implicitamente, permetta all'individuo di esercitare quel potere giuridico che si concreta nell'azione che altrimenti costituisce reato.
Secondo un'impostazione restrittiva [15], i diritti rilevanti ai sensi dell'art. 51 devono essere riconosciuti da rami dell'ordinamento giuridico extrapenali, e alla scriminante in esame deve essere attribuito un valore particolare nel sistema delle cause di giustificazione. Tutte quelle codificate, infatti, possono essere definite come attributive dell'esercizio di un diritto, ma l'art. 51 presenta delle peculiarità: si può affermare che, mentre lo stato di necessità è ancorato al principio dell'inesigibilità di un comportamento diverso da quello tenuto dal soggetto agente a causa delle circostanze, e il consenso dell'avente diritto esclude la punibilità perché viene meno l'interesse dell'ordinamento a punire un dato comportamento, l'esercizio di un diritto, invece, si fonda sul principio della prevalenza dell'interesse di cui è titolare la persona, il quale impedisce la configurabilità di un determinato suo comportamento come penalmente rilevante. L'ordinamento, perciò, esprime un giudizio positivo nei confronti dell'attività posta in essere dal medico, né potrebbe essere altrimenti; date la rilevanza e la rischiosità, a livello sociale, di tale occupazione, essa non potrebbe essere legittimata né da un semplice giudizio di indifferenza, come nel caso del consenso dell'avente diritto, né tantomeno da una valutazione di tolleranza, propria dei casi di stato di necessità.
Se si accoglie la configurabilità di tale causa di giustificazione, il consenso dell'avente diritto e lo stato di necessità possono operare al più come limiti al diritto del medico di curare, non come autonome scriminanti, superando, in tal modo, le difficoltà e i problemi che sorgono dalla loro applicazione.
Tuttavia, si deve sottolineare che esistono attività giuridicamente autorizzate, il cui esercizio può essere inquadrato, a seconda delle circostanze in cui vengono poste in essere, come esercizio di un diritto o adempimento di un dovere, disciplinato, anche quest'ultimo, dall'art. 51 del Codice Penale. Da quanto detto si può dedurre che non è soddisfacente, per l'inquadramento del trattamento medico-chirurgico, nemmeno l'esercizio di un diritto, o almeno non da solo, non essendo possibile ricondurvi il compimento di attività che si qualificano come doverose. Si può affermare anche che l'adempimento di un dovere costituisce esercizio di un diritto, da intendersi come attribuzione di un potere giuridico che è doveroso esercitare: si è, perciò, di fronte a casi definibili di potere-dovere. Se si privilegia il contenuto doveroso dell'attività esercitata, si può fare riferimento anche all'articolo 40, 2°comma, del Codice Penale, che afferma: "Non impedire un evento, che si ha l'obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo"; l'obbligo giuridico potrà risultare dalle leggi civili e professionali o dalla consuetudine. Se, viceversa, di dà più spazio al potere giuridico, nell'attività medica viene in maggior considerazione il consenso del paziente, che l'esplicazione dell'attività non deve sacrificare.
L'adempimento del dovere viene in considerazione sia nei rapporti di diritto pubblico, sia nelle relazioni contrattuali privatistiche: rientrano nel primo ordine di casi gli impieghi di funzionari e agenti legati con obbligazioni di servizio allo Stato e agli altri enti pubblici; nel secondo, l'esercizio di servizi di pubblica necessità, quali le professioni sanitarie.
La scriminante in esame, oltre alla norma citata, a base del reato omissivo improprio, detto anche commissivo mediante omissione, può richiamare anche una tematica assai vasta, quella del diritto di non curarsi, che rischia di essere sacrificato privilegiando il carattere doveroso dell'attività del medico. L'adempimento di un dovere, quindi, è utile al fine di spiegare perché il medico sia tenuto ad intervenire, mentre il potere d'intervento si basa sull'esercizio di un diritto: il compimento dell'attività medico-chirurgica è doveroso ogni qualvolta al potere si accompagni la sua doverosa esplicazione, tenendo, comunque, sempre fermi i limiti imposti dal rispetto del consenso del paziente e della dignità umana.
Non manca chi [16], però, vede in modo negativo il richiamo a tale causa di giustificazione, in quanto essa prescinde completamente da qualsiasi manifestazione di volontà del titolare del bene giuridico, mentre dal consenso del paziente non è possibile discostarsi, tranne casi eccezionali. Legittimare l'attività medico-chirurgica considerandola dovuta significherebbe, perciò, imporre un determinato trattamento al paziente, soluzione inammissibile e incompatibile con il principio personalistico che informa la Legge Fondamentale, e questo vale non solo per l'attività terapeutica, ma anche per i prelievi a scopo di trapianto e la sperimentazione scientifica. Inoltre, è da sottolineare che il richiamo all'adempimento del dovere può presentarsi come soluzione di comodo per legittimare l'attività del medico ed escluderne la responsabilità in caso di violazioni di legge; il riferimento a tale scriminante risulta, perciò, inadeguato alla realtà attuale e alle vaste proporzioni dell'odierna chirurgia. Gran parte della dottrina [17] è scettica, alla luce delle difficoltà che riscontra, all'idea che il trattamento medico-chirurgico possa essere considerato in base alle scriminanti tradizionali, perciò si segnala un orientamento che ne ricerca il fondamento tecnico-formale in scriminanti non codificate, create ad hoc per il settore considerato.
Si può affermare, innanzitutto, che l'inapplicabilità del consenso dell'avente diritto in tale ambito è dovuto alla peculiarità della materia, per cui tale scriminante è insufficiente a fornire una causa di liceità a un'attività che, nonostante sia fonte di un rischio socialmente consentito, può comunque comportare lesioni o pericoli di lesione molto gravi, fino a mettere in pericolo la stessa vita del paziente. Si tratta di tenere in considerazione la rilevanza sociale dell'attività terapeutica, che fa sì che si ricerchi una scriminante sui generis, che fornisca una giustificazione che ha la propria base in valori che fanno capo alla collettività e sono da considerarsi di rilievo sociale: in casi del genere, il ricorso al consenso dell'avente diritto è inadeguato, anche se si verte in tema di diritti disponibili.
Non mancano obiezioni a tale impostazione, che mettono in luce le difficoltà insite nell'individuazione di una scriminante non prevista dalla legge; numerose sono, comunque, le teorie richiamate per dare un fondamento a tale procedimento di ricerca [18].
Una prima spiegazione in termini di liceità basata su di una scriminante atipica richiama il concetto di adeguatezza sociale dell'azione [19], cui si fa ricorso per rendere lecita l'attività medico-chirurgica in relazione ai mezzi e agli scopi perseguiti nel suo esercizio, intendendosi quelli che, a seconda delle epoche storiche, sono inquadrabili nella vita collettiva e nel suo sviluppo; si tiene conto, quindi, di diversi sistemi normativi, espressi o taciti.
Quest'impostazione, però, non va esente da critiche, in quanto rimane ancorata a valutazioni di carattere emozionale, dal momento che non è facile collegare un determinato tipo di comportamento a canoni che sono propri del vivere sociale, costituiti da norme, anche non scritte, che si basano sulle trasformazioni che via via caratterizzano il pensiero collettivo.
Si è proposto anche di configurare l'esistenza di una scriminante atipica attraverso un procedimento analogico, in base al quale essa deriva dalla posizione, nell'ordinamento, della norma incriminatrice del comportamento del medico, in seguito a un'operazione di adeguamento del limite previsto dalla scriminante codificata a quello più ampio determinato dalla collocazione della norma che punisce il comportamento stesso: anche questa teoria è ampiamente confutabile, dal momento che l'ampliamento, attraverso un processo logico, dei limiti posti da una norma giuridica, non può essere spiegato affermando che il legislatore non ha prodotto l'adeguamento lui stesso per una svista; il legislatore, infatti, laddove ha posto dei limiti all'operatività delle norme giuridiche, l'ha fatto obbedendo a una propria scelta.
Pertanto, non può essere accolta la configurazione, basata sull'analogia, di una figura esimente concretante la necessità, basata sul principio dell'inesigibilità, che costituisce la ratio della scriminante tipica dello stato di necessità di cui all'art. 54 del Codice Penale: in base a tale impostazione, infatti, il principio di non esigibilità di un dato comportamento è alla base di tutte le cause di giustificazione disciplinate dalla legge, perciò è applicabile anche a quelle non codificate. Questo ragionamento è stato respinto, perché pecca di estrema genericità e non ne sono ben delineabili i confini.
Il ricorso all'analogia trova un ostacolo normativo nelle Disposizioni sulla legge in generale, il cui articolo 12 [20] lo ammette solamente ove non sia possibile risolvere altrimenti una controversia, mentre nulla si dice a proposito del caso in cui si debba non colmare una lacuna normativa, ma introdurre una nuova causa di giustificazione, che vada ad aggiungersi a quelle che la legge già prevede. Ritenere operante una scriminante con un procedimento che la legge non autorizza, perciò, significherebbe andare contro la volontà del legislatore, conferendo al giudice del caso concreto un margine di discrezionalità inammissibile.
Lo stesso scetticismo regna nei confronti del ricorso alla consuetudine come scriminante atipica, la cui ammissibilità nel diritto penale è riconosciuta sia nel senso di rendere leciti fatti che sono puniti dalla legge, sia con funzione integratrice di essa.
Si verifica la prima ipotesi quando, in via di eccezione, si considerano non punibili comportamenti che la legge incrimina, rispondendo a un'esigenza di adeguare la realtà normativa a regole sociali più moderne; questa tesi non è applicabile all'attività medica, in quanto non la si può considerare espressione di un comportamento rientrante nell'uso. Inoltre, la consuetudine si porrebbe in deroga ad una norma di legge ordinaria, quindi di rango superiore, l'articolo 5 del Codice Civile, che presuppone che l'avente diritto acconsenta ad atti di disposizione del proprio corpo, ma nei limiti fissati dalla norma stessa.
Se s'intende la consuetudine in funzione di integrazione del precetto penale, invece, si giunge a considerare una figura assimilabile alla scriminante codificata dell'esercizio di un diritto: così intesa, la consuetudine non assolve però una funzione di integrazione, ben potendo far rientrare il trattamento medico all'interno della causa di giustificazione prevista dalla legge penale, senza prendere nemmeno in considerazione la consuetudine.
Un'ultima via seguita [21] è quella della gestione d'affari per legittimare il trattamento medico; ma, a ben vedere, non siamo in presenza di una causa di giustificazione atipica, bensì del tentativo di estendere la portata del consenso dell'avente diritto, fino a rendere lecito un comportamento che ha la propria fonte non nel consenso, ma nel fatto che l'opera sia utilmente iniziata: l'inevitabile accostamento della negotiorum gestio alla scriminante di cui all'art. 50 ripropone tutte le problematiche sollevate dall'applicazione di tale esimente alla condotta del medico.
Recentemente, la Relazione della Commissione Ministeriale per la riforma del Codice Penale, istituita con Decreto Ministeriale del 1° Ottobre 1998 [22], presieduta dal Professore Avvocato Carlo Federico Grosso, ha affrontato la questione relativa alla possibilità di introdurre una causa di giustificazione ad hoc per l'attività terapeutica e gli interventi medico-chirurgici. Già l'art. 16, n°5 dello schema di legge-delega Pagliaro stabiliva la necessità di considerare scriminata l'attività medico-chirurgica, a patto che: " (a) vi sia il consenso dell'avente diritto o, in caso di impossibilità a consentire, il suo consenso presumibile e l'urgente necessità del trattamento; (b) il vantaggio alla salute sia verosimilmente superiore al rischio; (c) siano osservate le regole della migliore scienza medica". La Commissione del Progetto Grosso, invece, si è espressa in senso contrario, in quanto ha affermato che il rischio di intervenire in questo settore comporterebbe un irrigidimento della disciplina normativa, ormai ancorata a principi della prassi e della giurisprudenza che possono ritenersi consolidati. Inoltre, parlare di consenso presumibile richiede di affrontare un tema molto delicato, quello cioè della corretta informazione del paziente, argomento sul quale non sussistono ancora certezze in campo dottrinale, tema tra l'altro non trattato dal progetto Pagliaro. Quanto al requisito in base al quale il vantaggio alla salute deve essere superiore al rischio per il malato, esso non è facilmente misurabile, per cui richiederlo come presupposto espresso di una scriminante non sarebbe accettabile per la sua estrema genericità. Per tacere, poi, dell'osservanza delle norme che presiedono alla determinazione della migliore scienza ed esperienza, inquadrabili più nell'ambito della colpa che delle esimenti. Infine, non si prenderebbero in considerazione gli orientamenti giurisprudenziali in materia, che, quando hanno ritenuto che il consenso non fosse abbastanza 'informato', hanno propeso per la configurazione di delitti dolosi o preterintenzionali contro la persona.
Il problema della liceità del trattamento medico-chirurgico è risolto, da parte di alcuni autori [23], a favore della sua impostazione sul terreno della tipicità, vale a dire della riconduzione del comportamento del medico a una condotta prevista dalla legge penale e come tale incriminabile.
In proposito, una prima tesi distingue a seconda dell'esito del trattamento medico-chirurgico terapeutico, compiuto secondo le regole dell'arte medica: nel caso in cui sia favorevole, cioè abbia prodotto la guarigione o un miglioramento della salute del paziente, ci si trova al di fuori di una possibile configurazione della prestazione medica come penalmente rilevante, perché non si può parlare di fatto tipico; se, invece, l'esito è negativo, occorre considerare se, nel caso concreto, sussistono i presupposti per parlare di fattispecie delittuosa o di fatto scriminato dal consenso dell'avente diritto.
Occorre ben delineare, però, la distinzione tra esito fausto e infausto dell'intervento chirurgico, rispetto ai casi in cui il malato subisca una diminuzione della propria integrità fisica: bisogna, cioè, rifarsi al concetto di malattia di cui all'art. 582 del Codice Penale, che punisce il delitto di lesione personale. Tale figura delittuosa sussiste quando una persona subisce una lesione dalla quale deriva una "malattia nel corpo o nella mente"; occorre, però, precisare che cosa si intende per malattia [24].
In giurisprudenza e in dottrina ci sono stati, in proposito, molti contrasti, che hanno visto in opposizione due teorie fondamentali: la concezione giuridica e quella medica. Secondo la concezione giuridica, oggi superata, la malattia è un'alterazione dell'integrità fisica, anche solo anatomica. Se si segue questa impostazione, l'esito dell'intervento non ha rilevanza, dal momento che esso integra già di per sé il reato di lesione personale, provocando un'alterazione anatomica dell'integrità fisica del paziente.
La tesi in esame non pare accoglibile, poiché rende molto sottile, anzi quasi inesistente, la distinzione tra il delitto di lesione personale e quello di percosse, cosicché si farebbero rientrare nel primo anche le ecchimosi, le contusioni e le abrasioni, meglio riconducibili, secondo l'impostazione dominante, nell'ambito di operatività del secondo, di cui all'art. 581 del Codice Penale [25]. Si giungerebbe, così facendo, all'abrogazione del delitto di percosse.
La valorizzazione dell'esito si ha, invece, attribuendo alla malattia un significato diverso, ossia quello di alterazione funzionale dell'integrità fisica, alla quale può accompagnarsene anche una anatomica, ma non necessariamente: è, questa, la definizione di malattia in senso medico, che consente di mantenere valida la distinzione tra le due fattispecie delittuose. Applicando la definizione in esame al trattamento medico-chirurgico si arriva, quindi, alla conclusione che, se l'esito è positivo, il comportamento tenuto dal medico non è inquadrabile come fatto tipico ai sensi dell'art. 582 del Codice Penale, perché la malattia, integrante il fatto, rappresenta l'esatto contrario del miglioramento di salute che il paziente guadagna dall'intervento. La malattia in senso medico è un processo evolutivo, per cui si differenzia nettamente dai postumi post-operatori, caratterizzati dalla stabilità: si pensi alla cicatrice lasciata da un intervento chirurgico. La linea di demarcazione tra questi due concetti è netta, lo si evince anche dal testo dell'art. 583 C.P., che si occupa delle circostanze aggravanti della lesione personale: si parla di "malattia o…incapacità di attendere alle ordinarie occupazioni", evidenziando con la congiunzione "o" che sono due concetti diversi, e nel secondo si possono far rientrare i postumi dell'operazione.
Seguendo questo ragionamento, si presenta il problema di come valutare l'esito infausto, in particolare per ciò che concerne la sua imputabilità al medico. Dal momento che un evento si verifica, occorre valutare se esso possa essere definito come malattia e, in tal caso, quale sia il meccanismo d'imputazione dell'evento stesso.
Innanzitutto, non si può perdere di vista il fatto che l'esercente la professione sanitaria è intervenuto con il fine di migliorare le condizioni di salute del paziente, per cui non è pacifica l'affermazione secondo cui l'evento gli può essere addebitato oggettivamente, nonostante egli si sia attenuto alle norme cautelari da osservare nel caso concreto; sembra più appropriato ritenere, invece, che sussista un rapporto di causalità tra il precedente stato morboso e il peggioramento della salute o il decesso del malato.
Sembra opportuno, perciò, prendere in considerazione la tematica del rapporto di causalità nel diritto penale; in merito, non sussiste uniformità di consensi.
La teoria che raccoglie più adesioni è quella della condicio sine qua non, in base alla quale la condotta è causa dell'evento se ne rappresenta l'elemento senza il quale esso non si sarebbe verificato, requisito da valutare con un processo di eliminazione mentale, che esclude dal nesso causale tutti gli elementi che esulano da tale sistema. Chi accoglie tale impostazione assume come referenti normativi gli articoli 40 e 41 del Codice Penale; l'art. 40 [26] sancisce che sussiste causalità quando l'evento si presenta come conseguenza della condotta, mentre l'art. 41, 2° comma [27], in materia di concorso di cause, afferma che le concause sopravvenute, se da sole hanno determinato l'evento, escludono il rapporto di causalità.
Applicando la teoria in questione al trattamento medico-chirurgico con esito infausto, compiuto secondo le regole dell'arte medica, si deve verificare se, con il processo di eliminazione mentale, senza l'intervento l'evento si sarebbe comunque verificato: secondo i sostenitori di questo metodo, la risposta sarà positiva, in quanto lo stato morboso precedente del paziente avrebbe comunque seguito quel decorso. A fini esemplificativi, si possono citare i casi di amputazione di un arto per cancrena e la rimozione di un tumore già in fase di metastasi; nel primo caso, le condizioni erano già tali che l'arto non si poteva salvare, anzi, l'amputazione è compiuta proprio per evitare la morte del paziente, mentre nella seconda ipotesi l'intervento è inutile, perché il tumore è giunto ad una fase irreversibile, perciò la morte, anche se immediatamente consecutiva all'intervento, deriva dalle gravi condizioni dell'ammalato.
Quanto alle complicanze post-operatorie, si obietta contro la tesi secondo cui esse sono diretta conseguenza dell'intervento: si deve per contro affermare che, se il peggioramento della salute del paziente deriva da un errore nel trattamento medico-chirurgico, si versa in un'ipotesi di intervento eseguito senza osservare le regole dell'arte medica, per cui l'ambito è quello della colpa e si verifica un caso di lesione; se, invece, le condizioni peggiori dell'ammalato costituiscono un'evoluzione del precedente stato morboso, anche inaspettata, il discorso si focalizza sul nesso di causalità, che in tale ipotesi va considerato inesistente, per cui non si può parlare di fatto tipico.
Se si segue una diversa impostazione del problema, invece, si può affermare che l'intervento chirurgico esula dal diritto penale se si osservano, nella sua esecuzione, le regole dell'arte medica. In questo caso, in tema di rapporto di causalità si applica la teoria dell'imputazione oggettiva dell'evento, per verificare se il comportamento del medico abbia prodotto un aumento del rischio di verificazione del peggioramento della salute del paziente, o se, addirittura, l'evento di danno costituisce proprio la rappresentazione del danno che si voleva evitare con l'osservanza della norma cautelare violata. La teoria in esame non ha una collocazione autonoma nella materia del rapporto di causalità, ma concerne l'ambito dell'intensità oggettiva della colpa, che comprende in sé la violazione di una norma cautelare.
La valutazione relativa all'aumento del rischio è utile perché consente di saggiare se l'attività del medico abbia creato maggiori probabilità di verificazione dell'evento: si richiede, perciò, un giudizio che dia conto della misura oggettiva della violazione della norma cautelare, inevitabilmente collegata al concetto di colpa. Lo stesso legame con la colpa si ha nella verifica che ha lo scopo di scoprire se il danno è concretizzazione di quello che la norma cautelare tendeva ad evitare, infatti occorre un'impostazione in termini di fini di tutela della norma, che ha alla propria base la violazione di una norma cautelare.
Tenendo presenti la teoria dell'imputazione oggettiva dell'evento e l'inosservanza di regole cautelari che presiedono all'attività medico-chirurgica, si afferma che l'elemento fondante la responsabilità del medico è l'inosservanza di una norma cautelare, che costituisce il punto di partenza dell'intero discorso relativo alla responsabilità. Se non c'è stata alcuna violazione, non si può parlare di responsabilità del sanitario, nemmeno se l'esito dell'intervento è negativo; una volta accertata l'avvenuta violazione, invece, si può impostare il discorso in termini di imputazione oggettiva dell'evento, e quindi nell'ambito di operatività della colpa. In caso di responsabilità penale accertata per violazione della norma, nella costruzione della misura oggettiva della colpa il trattamento medico-chirurgico viene inquadrato come fatto tipico, più precisamente come delitto colposo.
Chi si dichiara contrario a questa teoria e a quella che si basa sull'esito dell'intervento [28] afferma che quest'ultima addossa al medico una responsabilità eccessivamente gravosa, basandosi unicamente sull'esito, senza tenere conto delle obiettive difficoltà che caratterizzano interventi chirurgici particolari; la tesi che prende in considerazione l'esecuzione secondo le regole dell'arte medica, invece, tutela il medico ma non il paziente, che può subire lesioni alle quali non ha acconsentito e che sono conseguenza di un'iniziativa autonoma del sanitario, che si è semplicemente attenuto alle leges artis.
Viene proposta, in opposizione, una soluzione che tenga conto dell'importanza che riveste il paziente nel suo rapporto personale con il medico, cercando di conciliare le sue esigenze con quelle dell'esercente la professione sanitaria. Il paziente deve essere sempre l'unico a regolare l'intervento medico-chirurgico, mentre il medico, che deve intervenire solo se c'è il suo consenso, agisce in veste di esercente un compito il cui valore è molto importante per la collettività: una tale qualificazione del trattamento medico impedisce di prenderlo in considerazione parlando di fatto tipico che possa integrare una fattispecie delittuosa. Una distinzione deve essere fatta, ma non tra fatto tipico e atipico, bensì tra trattamento medico-chirurgico con o senza finalità terapeutiche. Il primo caso è quello che viene in considerazione a livello di fatto tipico, nel senso che, se l'attività è compiuta col consenso del malato, e si parla di consenso- accordo, seguendo le leges artis, qualsiasi diminuzione dell'integrità fisica del paziente non può essere ricondotta ad alcuna fattispecie delittuosa, nemmeno se si verifica la sua morte; questa scelta è motivata dal fine terapeutico che caratterizza l'intervento, ossia un miglioramento della salute. In questo caso, quindi, il consenso non incontra i limiti che la legge pone alla scriminante di cui all'art. 50 C.P.: è pienamente ammissibile, di conseguenza, anche nei confronti di condotte altamente rischiose per la vita, perché l'art. 5 del Codice Civile non è operativo: il fatto è, pertanto, atipico.
Il discorso relativo alle scriminanti può essere valido solo per il trattamento medico-chirurgico senza finalità terapeutiche: in tal caso, la condotta tenuta dal medico, se provoca una lesione dell'integrità fisica o, a fortiori, la morte del paziente, è da considerarsi tipica, pertanto inquadrabile tra le figure delittuose punite dal Codice Penale, ma può essere scriminata dal consenso dell'avente diritto, se ne ricorrono i presupposti. L'esimente opera con i limiti posti dall'art. 5 del Codice Civile, in quanto si applicano le comuni norme in tema di cause di giustificazione. Ne deriva la liceità, ad esempio, della donazione di sangue [29], qualora ci sia stata una manifestazione di volontà in tal senso da parte del donatore: senza di essa, invece, il prelievo, illecito, configura una condotta criminosa tipica e non scriminabile; analogo discorso può farsi per il prelievo della cute. In linea generale, inoltre, il consenso non può giustificare la donazione di organi da vivente, per i limiti insiti nell'art. 5, anche se vi sono le eccezioni del trapianto di rene e di parte del fegato, consentiti dalla legge [30].
Tra gli interventi medico-chirurgici senza finalità terapeutiche si annoverano, a fini esemplificativi, la chirurgia estetica e plastica e la sterilizzazione. Gli interventi di chirurgia estetica e plastica, innanzitutto, sono leciti sia in caso di seria e reale indicazione medica, sia in sua assenza, se non ne deriva una diminuzione permanente dell'integrità fisica e il consenso non contrasta con la legge, l'ordine pubblico o il buon costume (art. 5). La sterilizzazione, invece, è ammessa, anche se permanente, sempre che vi sia un'indicazione medica e l'avente diritto abbia prestato il proprio consenso; se, viceversa, non è stata data alcuna indicazione medica, ma le ragioni sono di tipo diverso, ad esempio sociale o eugenico, oppure mancano del tutto, non è ben chiaro se la si possa qualificare come lecita. Dal momento, però, che è stata legittimata l'interruzione volontaria della gravidanza [31], pur con alcuni limiti fissati in via legislativa, si ritiene che si possa parlare di liceità anche in questi casi, derogando all'art. 5 del Codice Civile, in quanto la sterilizzazione ha come conseguenza una diminuzione permanente dell'integrità psicofisica del soggetto passivo.
Non mancano, però, voci contrastanti con tale visione dei trattamenti medico-chirurgici, che, pur considerandoli leciti in presenza del consenso del paziente, sono scettiche nei confronti della loro qualificazione sia in termini di atipicità sia nel senso di considerare la condotta del medico giustificata dal consenso dell'avente diritto [32]. Andrebbe esclusa, pertanto, qualsiasi certezza in ordine al fatto che ogni trattamento terapeutico, cioè diretto ad un miglioramento della salute del paziente, sia da considerare atipico per la finalità che gli è propria; nella pratica, infatti non sempre il miglioramento avviene, anzi, il più delle volte il medico opera in situazioni nelle quali non si può parlare di 'certezza terapeutica' e l'esito dell'intervento non è positivo per il paziente. Se, in casi come questo, si esclude la configurabilità della condotta come fatto tipico, risulta priva di un'adeguata tutela l'integrità fisica del paziente, contrariamente all'impostazione personalistica conferita dalla Costituzione a tale bene. Secondo questo ragionamento, il trattamento medico-chirurgico è oscillante tra la tipicità e l'antigiuridicità. Se si sostiene, infatti, che la tipicità è esclusa per il valore sociale da attribuire all'atto medico terapeutico, si esprime, in realtà, un giudizio di valore, inquadrabile nell'ambito dell'antigiuridicità e del connesso problema delle cause di giustificazione.


(b) Il consenso informato nel rapporto medico-paziente


E' molto importante prendere in considerazione il consenso del paziente all'interno dei diritti garantiti dalla Costituzione.
Ai sensi dell'art. 32, 2°comma, prima parte, della Legge Fondamentale, "Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge"; ne deriva, quindi, che al di là dei trattamenti obbligatori si richiede il consenso dell'interessato.
E' fondamentale tenere distinto il consenso previsto da tale norma, desumibile a contrario dal dettato normativo per i casi in cui non opera la riserva di legge, dalla causa di giustificazione del consenso dell'avente diritto, di cui all'art. 50 del Codice Penale [33]. Mentre quest'ultima rende la condotta lecita in assenza di una norma che la punisca, per cui si parla anche di irrilevanza della condotta [34], il consenso riconosciuto dalla Legge Fondamentale fissa un requisito in mancanza del quale l'intervento chirurgico è sempre illegittimo. La ratio di una simile scelta sta nel quadro in cui si inserisce l'atto di volontà, che risulta essere espressione della libertà di autodeterminazione del paziente [35]. Di conseguenza, un intervento effettuato prescindendo da esso è da qualificare arbitrario, anche se ha prodotto un miglioramento delle condizioni di salute dell'ammalato [36]. Questo modo di concepire il consenso ha le sue radici nel diritto di libertà, rispetto al quale costituisce un atto di esercizio. La garanzia data dalla necessità della sua sussistenza è una specificazione del riconoscimento della libertà personale, di cui all'art. 13 della Costituzione, che sancisce i principi di riserva di legge e giurisdizione per le restrizioni ad essa; ma il vero fondamento del consenso è di carattere più generale, si trova sancito nella Dichiarazione Universale dei diritti dell'uomo, il cui articolo 3 afferma: "Ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza della propria persona" [37].
Seguendo tale impostazione, non si parla di consenso alla lesione o alla messa in pericolo di un bene, come nelle scriminanti, ma di esercizio del diritto di libertà.
Quanto ai requisiti dell'atto di volontà si prenda in esame, innanzitutto, la forma della sua manifestazione: il trattamento medico può essere considerato conforme alla volontà del paziente, oltre ai casi di consenso manifestato espressamente, anche se questi non ha espresso una volontà dissenziente, il che accade sia quando, pur essendo stato messo nelle condizioni di esprimerla, non si è pronunciato, sia se, per la fiducia che nutre nei confronti del proprio medico, si affida a lui completamente, sia per fatti concludenti. Per quanto la giurisprudenza affermi l'importanza di una manifestazione espressa di volontà, essa ammette che in certi casi sia configurabile un consenso tacito, "purché suffragato da una condotta inequivocabilmente idonea ad esternare l'effettiva volontà del paziente" .
Se, diversamente, il trattamento è attuato contro la diversa volontà del soggetto, si versa in un'ipotesi di trattamento arbitrario, sempre che il paziente sia capace d'intendere e di volere; altrimenti, una volta accertata l'incapacità da parte del medico, si può sostenere che operi il consenso presunto, se sussistono elementi in base ai quali è legittimo ritenere che, se fosse stato in grado, l'incapace l'avrebbe prestato.
Questo orientamento nel senso dell'ammissibilità, a livello generale, del consenso presunto all'atto medico, ha visto però l'opposizione della giurisprudenza, in particolare nel celebre caso Massimo, in merito al quale si sono pronunciate la Corte d'Assise e la Corte d'Assise d'Appello di Firenze e la Corte di Cassazione.
La Corte d'Assise di Firenze, in 1° grado, il 18 Ottobre 1990 [38] afferma la sussistenza della fattispecie di omicidio preterintenzionale in capo a Carlo Massimo, primario chirurgo all'Ospedale Careggi di Firenze, per avere eseguito un intervento chirurgico diverso da quello concordato sulla paziente, deceduta due mesi dopo a causa delle gravi lesioni riportate dall'operazione.
Questa decisione valorizza l'elemento della mancanza totale di consenso espresso della diretta interessata, escludendo la possibilità di configurare, in casi di questo genere, un consenso presunto che operi quale scriminante in sostituzione di quello reale [39]. Non è sufficiente, perciò, neanche informare i parenti diretti del soggetto passivo, che deve essere messo in grado di decidere in merito, dato che, nel caso di specie, non si versa in un'ipotesi di "pericolo attuale di un danno grave alla persona", situazione concretante lo stato di necessità, che avrebbe consentito di prescindere dal consenso espresso. La sentenza è di grande rilievo, in quanto esamina il problema del difficile equilibrio tra il rispetto della libertà individuale e la tutela della salute: "..nulla il medico può fare senza il consenso del paziente o addirittura contro il volere di lui, il che, anche, corrisponde ad un principio personalistico di rispetto della libertà individuale e ad una configurazione del rapporto medico-paziente che bene la difesa di PC ha individuato nella figura del paziente come portatore di propri diritti fondamentali, e dunque come uomo-persona, uomo-valore e non come uomo-cosa, uomo-mezzo, soggetto a strumentalizzazioni anche odiose per fini che sono stati spesso ammantati di false coperture di progresso scientifico o di utilità collettiva". Tenuto conto del fatto che sono in gioco diritti di carattere personale, le uniche eccezioni al consenso espresso sono quelle in cui l'avente diritto sia incapace perché minore o interdetto, per cui in tali casi l'atto di volontà è manifestato dal rappresentante legale. Se, invece, l'interessato è materialmente impossibilitato a manifestare la propria volontà, la Corte non lo configura nella forma presunta, bensì parla di stato di necessità, sempre che ne ricorrano i presupposti ex art. 54: in tal caso, il medico deve essere posto in condizioni di decidere in modo assolutamente autonomo, in quanto è la persona che meglio può valutare la situazione concreta. La decisione viene confermata dalla Corte d'Assise d'Appello di Firenze, il 26 Giugno 1991, che ribadisce quanto già affermato in primo grado, sottolineando anche che la paziente era in condizioni gravi ancor prima dell'intervento. Anche la Corte di Cassazione [40], infine, si esprime in senso conforme, pertanto condanna l'imputato per omicidio preterintenzionale.
La sentenza in questione rappresenta un'innovazione nella concezione globale del rapporto che si instaura tra medico e paziente, che consiste in una valorizzazione del ruolo svolto dal consenso nella relazione terapeutica, prima concepito in un'ottica di beneficenza o beneficialità, in base alla quale il medico agiva sempre e in ogni caso nell'interesse del paziente, oggi considerato un elemento imprescindibile per l'autodeterminazione dell'individuo [41]. Fino a poco tempo fa, quindi, il medico, soprattutto il chirurgo, godeva di una sostanziale impunità nel suo operato, dovuta al fatto che agiva nell'interesse della persona ammalata. Il cambiamento ha avuto inizio negli anni'60, quando il rapporto tra medico e paziente è diventato sempre più impersonale, grazie anche all'istituzione del Servizio Sanitario Nazionale, con la legge n. 833 del 1978. La responsabilità del medico, allo stesso tempo, si è accentuata, e il malato è stato sempre più considerato come persona dotata della capacità di decidere autonomamente.
A sostegno di un tale mutamento di prospettiva si può fare riferimento anche al nuovo Codice di deontologia medica, approvato il 4 Ottobre 1998, che afferma nell'art. 30 il dovere del sanitario di informare il paziente, tenendo in considerazione anche le sue caratteristiche personali, per renderlo edotto delle proprie reali condizioni e delle possibilità terapeutiche che gli si prospettano. L'art. 32, 1° comma, sancisce che "Il medico non deve intraprendere attività diagnostica e/o terapeutica, senza l'acquisizione del consenso informato del paziente". La forma prevista è quella scritta per i casi previsti dalla legge e quelli in cui le conseguenze possono essere molto gravi per il singolo. In ogni caso, se la prestazione diagnostica e il trattamento terapeutico comportano un alto rischio per l'incolumità del paziente, il medico può operare solo in casi di assoluta necessità e previa informazione sulle conseguenze possibili. Il nuovo Codice è diverso rispetto al precedente, improntato al principio di beneficenza, che non teneva in debito conto l'informazione del malato.
Considerando i requisiti del consenso, inoltre, il suo oggetto è costituito dal singolo trattamento medico, non investendo il risultato, essendo il medico legato al paziente da un'obbligazione di mezzi.
L'esercente la professione sanitaria, se il paziente non pone limitazioni alle sue prestazioni, è titolare di ampi poteri di iniziativa; si applica il principio dell'affidamento legato a quello di buona fede, se non sono stati stabiliti diversi accordi tra i due soggetti.
Se si ragiona in questi termini non si pongono più i problemi relativi alla scriminante putativa ex art. 59, 4° comma, C. P., inoltre si dà al paziente quella libertà di autodeterminazione di cui è titolare, che si esplica anche nella manifestazione del consenso a un trattamento medico-chirurgico. Il medico, quindi, ha il compito di informare il paziente, il quale è arbitro indiscusso della decisione di informarsi, ovvero di affidarsi a lui, o ancora di non sottoporsi ad alcun intervento. Il contenuto del diritto all'informazione varia a seconda del destinatario, tenendo conto della sua personalità e anche della sua sensibilità; egli dovrà essere informato sul trattamento cui dovrebbe sottoporsi e sulle conseguenze che da esso possono derivare, sulle possibili terapie e sui rischi che queste possono comportare e sul proprio quadro clinico, come diagnosticato dal medico [42].
Si tende ad affermare che il diritto all'informazione esiste se è esercitato positivamente, nel momento in cui il paziente è messo nelle condizioni di attuarlo. Secondo questa visione, perciò, se egli ha avuto notizia del trattamento cui dovrebbe essere sottoposto solo in linea generale e non ha dissentito, né ha avanzato richieste d'alcun tipo al sanitario, si ritiene che sia consenziente; sempre che non si versi, però, secondo la giurisprudenza [43], in casi di interventi chirurgici di un certo rilievo: in tali ipotesi, infatti, il consenso deve essere specifico, escludendosi la possibilità di legittimare l'attività del chirurgo in virtù di una 'delega in bianco' conferitagli dal paziente.
La specificità del consenso ha proprio l'obiettivo di evitare qualunque tipo di prevaricazione da parte del sanitario, richiedendosi, per interventi dotati di una certa rilevanza per i beni coinvolti, un atto di volontà tanto più specifico quanto più il rischio è elevato.
L'art. 32 della Costituzione, nella seconda parte del 2° comma, afferma: "La legge non può in ogni caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana". Il valore della dignità umana può essere considerato in collegamento con il tema dei trattamenti sanitari obbligatori, potendosi ritenere che questi siano forme d'intervento contrastanti con essa. Si può considerare tale limite come una valorizzazione della persona e del suo diritto alla salute in chiave individualistica, contro un'impostazione rigidamente collettiva. E' vero che lo Stato e la società sono tra di loro in un rapporto di connessione funzionale, nel senso che la società pone alla persona singola i propri fini, ma non bisogna sottovalutare il fatto che, comunque, è dall'individuo che la società nasce, e i suoi interessi non possono essere sacrificati per conferire un vantaggio alla collettività globalmente intesa. I diritti individuali, come la vita, la salute, l'integrità fisica non possono essere compressi in nome del bene collettivo, essendo quello della Legge Fondamentale un orientamento in chiave personalistica.
Sono espressione di tale impostazione i limiti che si ritengono sussistenti nella sperimentazione clinica, ammessa solo se ha finalità terapeutiche, è accettata dal paziente come soddisfacimento di un suo interesse e non vi sono strade alternative già sperimentate. Si considerano vietati, invece, gli interventi che comportano un peggioramento dell'estetica e i prelievi e le sperimentazioni che comportano delle lesioni che fanno perdere alla persona le sembianze umane. Analogo discorso può farsi per la chirurgia creatrice, consistente ad esempio nell'ingegneria genetica o nel trapianto dell'encefalo, nel trapianto delle ghiandole sessuali, in alcuni trattamenti di rianimazione al fine di prelevare organi per i trapianti, negli esperimenti di ibernazione e in tutti gli interventi contrari al diritto di morire dignitosamente.
Da uno sguardo d'insieme alla normativa in materia e ai limiti contemplati dalla Costituzione si può evincere che il medico ha una grossa responsabilità nell'esecuzione dell'attività medico-chirurgica, dovendosi adoperare rispettando limiti non sempre delineabili facilmente. Al fine di attuare la tutela della persona, egli può adoperarsi in svariati modi; in particolare, uno strumento efficace consiste nel rendere effettivo il dovere d'informazione del paziente, nella scelta del trattamento che più risponda alle esigenze del caso concreto, nel rispetto della dignità umana e dei limiti in generale concernenti il singolo individuo.


2) La chirurgia sostitutiva

(a) Chirurgia sostitutiva con organi o parti di organi artificiali e chirurgia del trapianto: generalità

All'interno della chirurgia sostitutiva, ai fini giuridici, s'impone una distinzione tra chirurgia sostitutiva con organi o parti d'organi artificiali e chirurgia del trapianto: la prima ha ad oggetto la sola attività diretta all'impianto, la seconda comprende sia il prelievo sia l'impianto [44].
E' opportuno non confondere i tessuti dagli organi [45]; per tessuto s'intende un insieme di cellule che presiedono alla medesima funzione, mentre l'organo è il risultato dell'unione di diversi tessuti, che a loro volta possono raggrupparsi in apparati o sistemi. Per la scienza medica, comunque, il concetto di tessuto può essere usato in pochi casi, considerandosi all'interno della categoria solamente i tessuti: connettivale, epidermico, muscolare e nervoso; dato che essi di rado si trovano allo stato puro, quello che viene considerato realmente tale è la cornea. Si deve inoltre rilevare che il prelievo si caratterizza diversamente, da un punto di vista pratico, a seconda che riguardi organi o tessuti: nel primo caso si parla di organotrapianti e occorre un intervento tempestivo che non è necessario per i tessuti, prelevabili anche dopo alcune ore dalla morte; i trapianti di tessuti sono anche chiamati isotrapianti.
I trapianti possono essere:
- trapianti autoplastici o autologi o autotrapianti: c'è identità di persona tra donatore e ricevente, per cui le parti anatomiche sono
prelevate dallo stesso organismo in cui sono trapiantate;
- trapianti eteroplastici o eterotrapianti: il donatore appartiene a una specie diversa da quella del ricevente;
- trapianti omoplastici od omotrapianti: il donatore ed il ricevente appartengono alla stessa specie. Se geneticamente i soggetti sono identici, si parla di trapianto isogenico od isotrapianto, ed è quanto accade nel caso dei gemelli monovulari; se, invece, sono geneticamente differenti, l'intervento prende il nome di trapianto allogenico o allotrapianto, ed è il caso comune di trapianto da uomo a uomo.
Sempre restando all'interno degli omotrapianti, si può ulteriormente distinguere a seconda che essi siano eseguiti su persona vivente o su cadavere. Il trapianto da vivente consiste nel prelievo di una parte anatomica da un soggetto in vita e può essere compiuto o come attività a sé stante, ovvero nell'ambito di un intervento chirurgico a scopo terapeutico, o, ancora, come conseguenza di una lesione altrui che richiede tale intervento, e nel successivo impianto nel ricevente.
Il trapianto da cadavere, invece, è compiuto con un prelievo da persona deceduta e, in seguito, con l'impianto della parte anatomica in un soggetto in vita.
A proposito della sede in cui si esegue l'omotrapianto, invece, esso può essere ortotopico o eterotopico.
Il trapianto ortotopico è detto anche sostitutivo e consiste nella collocazione dell'organo nella sede di quello primitivo; il trapianto eterotopico, invece, chiamato anche suppletivo, si compie nei casi in cui l'impianto avviene in un'altra sede del corpo dell'individuo, lasciando l'organo primitivo nella sua posizione.

 

(b) I prelievi da vivente

La chirurgia sostitutiva con organi o parti di organi artificiali e i trapianti da vivente a vivente, inquadrabili all'interno della categoria della sperimentazione umana in senso lato, presentano problemi, non tanto sotto il profilo della loro liceità, quanto dal punto di vista delle limitazioni cui sono soggetti.
Si vedano i limiti di liceità dei prelievi da vivente [46]; il diritto, pur con i notevoli contrasti che caratterizzano i dibattiti in dottrina in merito ai trattamenti medico-chirurgici, e la morale, accettano e valorizzano l'attività sperimentale in generale e trapiantologica in particolare; si tratta, infatti, di ricerche scientifiche che mirano a un miglioramento delle condizioni di salute, e il diritto alla salute è tutelato anche dalla nostra Costituzione, come diritto inviolabile dell'uomo che assume una rilevanza sotto il profilo individuale e collettivo.
Il problema dei limiti entro i quali tale attività può considerarsi lecita è importante, perché è necessario che siano posti degli argini all'attività sperimentale dell'uomo.
Secondo un'impostazione in chiave etica, la morale religiosa, cattolica e non, e la morale laica ne riconoscono la liceità in modo espresso.
Dal versante giuridico, inoltre, lo stesso vale per i Paesi che sono dotati di un certo livello di tecnologia; i prelievi da vivente e, più in generale, la sperimentazione e i trapianti, inquadrabili nell'attività medico-chirurgica, devono essere fatti rientrare nell'ambito delle attività che comportano un rischio che non supera quello socialmente consentito, pertanto autorizzate dalla legge, in quanto umanamente utili.
Mentre la chirurgia terapeutica, sia essa demolitrice, riparatrice o sostitutiva, ha come scopo quello di migliorare la salute del paziente, rendendo sano un soggetto che è ammalato, i prelievi da vivente, e con essi l'attività sperimentale, perseguono uno scopo che si colloca all'esterno rispetto alla salute del soggetto, in quanto tendono a trasformare una persona sana in ammalata, tramite il prelievo di una sua parte anatomica, che si realizza attraverso trattamenti o amputazioni, che ne possono peggiorare lo stato di salute. Le sperimentazioni e i prelievi da vivente costituiscono, perciò, delle lesioni, per cui possono essere considerate lecite solo se sussistono delle motivazioni che consentono questo.
Il fondamento politico-sostanziale dell'attività medico-chirurgica è, perciò, inquadrabile all'interno della salvaguardia del diritto alla salute come riconosciuto dalla Costituzione, mentre i prelievi da vivente finalizzati al trapianto terapeutico hanno un fondamento da ricercare in elementi estrinseci, consistenti in ragioni umanitarie e sociali, collegati alla tutela sì della salute, ma di quella di un soggetto diverso da colui che si sottopone al prelievo, vale a dire di colui che ne beneficia, che si presenta come ricevente.
La sperimentazione medica pura, invece, ha un fondamento politico-sostanziale ancora diverso, in quanto consiste nel progresso della medicina e della ricerca scientifica in generale, cui la Costituzione fa espresso riferimento, laddove riconosce la libertà della scienza, nell'art. 33, il dovere della Repubblica di incoraggiare la ricerca tecnica e scientifica, nell'art. 9, e il diritto alla salute nell'interesse dell'intera collettività, nell'art. 32.
Quanto al fondamento politico-formale, sui trapianti da vivente a vivente valgono le varie teorie formulate in materia per il trattamento medico-chirurgico in senso ampio.
Per ciò che concerne i limiti di tale attività, ve ne sono di oggettivi e soggettivi [47]. Tra i limiti oggettivi vi sono, innanzitutto, il diritto alla salute, alla vita e all'integrità fisica del donatore, sanciti rispettivamente dagli articoli 32 della Legge Fondamentale, 579 del Codice Penale e 5 del Codice Civile; da questa disciplina normativa si evince l'illiceità dei prelievi di organi unici e doppi.
Fanno eccezione il rene e il fegato: il prelievo di un rene a scopo di trapianto è consentito dalla Legge n° 458, del 26 Giugno 1967 [48], recante norme sul "Trapianto del rene tra persone viventi", quello di parte del fegato dalla Legge 16 Dicembre 1999, n. 483, contenente "Norme per consentire il trapianto parziale di fegato", che rinvia, per quanto compatibile, alla disciplina sul trapianto di rene. Entrambe si pongono al limite della legittimità costituzionale, in quanto ammettono la possibilità di una diminuzione permanente dell'integrità fisica della persona, e inoltre creano in capo al potenziale donatore uno stato psicofisico di angoscia, ponendolo di fronte all'alternativa tra un gesto coraggioso, ma pregiudizievole per la sua salute, e un rimorso di coscienza, nel caso in cui scelga di non compierlo.
Per quanto riguarda il rene, il prelievo è ammesso perché si tratta di un organo doppio, e senza uno dei due un individuo può comunque vivere senza essere impedito nelle sue attività. Relativamente al fegato, che invece è un organo unico, esso ha l'attitudine a rigenerarsi, inoltre si afferma anche che, se l'intervento ha ad oggetto delle piccole parti, non necessariamente il donatore subisce una riduzione permanente dell'integrità fisica.
L'autorizzazione deve essere data con la previa certificazione di idoneità e istocompatibilità conferita dalla struttura sanitaria incaricata dell'intervento, in seguito al parere favorevole di un collegio medico, che redige processo verbale all'Azienda Ospedaliera, la quale lo trasmette poi al giudice; l'operatività dell'autorizzazione viene curata da un decreto del giudice competente per territorio, ossia quello del luogo di residenza del donatore o in cui ha sede la struttura sanitaria autorizzata, entro il termine di trenta giorni decorrenti dall'istanza relativa al trapianto. Il giudice, inoltre, deve accertare quale sia l'età del donatore e se sia capace d'intendere e di volere, nonché se questi sia a conoscenza dei limiti insiti nella terapia trapiantologica e delle conseguenze che il suo fisico dovrà sopportare in seguito all'operazione (art. 2, l. 458/1967). E', inoltre, vietata la pattuizione di compensi privati: si afferma, infatti, che la donazione è, in quanto tale, a titolo gratuito. Per cercare di rendere più raggiungibile tale obiettivo, si accorda prevalenza, tra i donatori, ai consanguinei, cioè le persone che meno delle altre si presume siano animate da finalità speculative. La legge in esame persegue l'obiettivo di tutelare il donatore, assicurando controlli in merito alla necessità dell'intervento al fine di salvare la vita del ricevente e, infine, dando garanzie in merito alla sicurezza dello stesso. L'esistenza di questa disciplina normativa rafforza ancora di più la radicata convinzione di chi afferma [49] che l'art. 5 del Codice Civile costituisce un limite applicabile anche nel settore medico-chirurgico, in quanto consente di dimostrare che, a patto che il legislatore non intervenga espressamente derogando alla legge, rimane fermo il divieto sancito dalla norma in questione. Lo affermano espressamente entrambe le leggi, che nell'art. 1 esordiscono con la frase: "In deroga al divieto di cui all'articolo 5 del Codice Civile…".
In senso contrario [50], alcuni affermano che non si è in presenza di vere e proprie deroghe, altrimenti entrambe le normative avrebbero fissato una disciplina differente da quella contemplata dall'art. 5, mentre invece si sono spinte oltre, creando una regolamentazione pubblicistica della materia, perciò estranea ai rapporti privatistici, quindi l'atto di disposizione rappresenta un atto di destinazione di rilevanza generale. In base alle leggi considerate, quindi, i limiti fissati dall'art. 5 sono inapplicabili, se si tiene conto del miglioramento della salute del ricevente, mettendolo a confronto con il sacrificio patito dal donatore. Se si preferisce tale impostazione a quella in senso rigorosamente civilistico, che è comunque prevalente, si propende per un'interpretazione delle discipline in esame nel senso di un ampliamento del concetto di disponibilità del diritto, dilatandone il significato rispetto alla dicitura dell'art. 50 del Codice Penale sul consenso dell'avente diritto, con la conseguenza che l'art. 5 non è nemmeno preso in considerazione. L'estensione, perciò, si basa sul modo di applicazione della scriminante, ossia sul principio del bilanciamento di interessi, quello del donatore e quello del ricevente. Inoltre, sono previste delle cautele relative al meccanismo autorizzatorio, che fa capo a un magistrato.
L'opinione dominante, però, è nel senso di ritenere le normative sul trapianto di rene e di parte del fegato delle deroghe all'art. 5.
Dai limiti oggettivi operanti per i prelievi da vivente deriva la necessità che siano verificate: l'idoneità fisica di chi si sottopone al prelievo, la necessità terapeutica dell'intervento e l'idoneità del luogo dove questo dev'essere effettuato [51].
Un altro limite oggettivo è dato dal principio di tutela della dignità umana, sancito dagli articoli 3, 41 e 32 della Costituzione, che impedisce interventi deturpanti o alteranti le sembianze umane del donatore; infine, un ulteriore freno è rappresentato dal principio di uguaglianza e pari dignità degli uomini davanti alla legge, riconosciuto dall'art. 3 della Legge Fondamentale, dal quale deriva il divieto di operare discriminazioni, quali possono essere la sottoposizione a prelievo di soggetti molto malati o di provenienza etnica diversa o culturalmente più arretrati.
A livello soggettivo, il limite è dato dal consenso del donatore, che deve essere determinato alla donazione "liberamente e spontaneamente" (art. 2, l. sul trapianto di rene e art. 1, l. sul trapianto di fegato, che rinvia alla prima).
Si può notare, in proposito, una differenza tra le normative sul trapianto di rene e fegato e la Legge n° 107 del 1990, che disciplina la donazione di sangue: mentre quest'ultima richiede il semplice consenso, per i trapianti inter vivos esiste una rete informativa burocratizzata: il motivo è da ricercare nel diverso grado di tutela che il donatore deve ricevere nei due casi, dato che con la donazione di sangue non si verifica mai una diminuzione permanente dell'integrità fisica del soggetto, mentre non si può dire lo stesso per i trapianti.


(c) I prelievi da cadavere

Il trapianto d'organi post-mortem presenta problemi e pone interrogativi dal punto di vista sia giuridico che etico, date le implicazioni che derivano dal dibattito in tema di volontà alla donazione.
La regolamentazione normativa della materia ha subito dei cambiamenti con il passare degli anni, infatti si è passati da una legislazione rigida, che operava una classificazione degli organi passibili di trapianto, a una più flessibile, che consente tale intervento per tutti gli organi, eccettuati alcuni in particolare per i quali espressamente lo vieta.
Il dibattito sull'argomento si è fatto sempre più acceso, dato il crescente interesse dell'opinione pubblica in materia, legato anche al progresso scientifico, che consente oggi di tutelare il diritto alla vita e alla salute grazie a tecniche in continua evoluzione, anche in tema di trapianti.
Un problema, però, è rimasto: le offerte sono sempre inferiori alla domande, e ciò nonostante ci sia una maggiore attenzione della popolazione per queste tematiche rispetto al passato.
Le strade percorribili per risolvere questo problema sono principalmente tre: la creazione di un mercato d'organi, il consenso presunto, il consenso espresso [52].
La scelta di istituire un mercato d'organi, seguendo il modello del market oriented approach, non pare sostenibile, in quanto sembra troppo drastica; anche creando appositamente un sistema assicurativo per la loro vendita, infatti, non sarebbero risolti alcuni problemi, tra cui quello di fissare i prezzi.
Il consenso presunto, quale soluzione allo squilibrio tra domanda e offerta, è stato adottato in molti paesi stranieri e in Italia, mentre quello espresso è stato introdotto in altri paesi, ognuno dei quali l'ha dotato di regole specifiche.
Il risultato del recepimento di tali differenti modelli, però, non ha risolto il problema, neanche con il recente inserimento del sistema del silenzio-assenso, introdotto dalla Legge 1° Aprile 1999, n. 91 [53].
Un problema che il trapianto post-mortem pone è, innanzitutto, quello della verifica dell'esistenza di un diritto di disporre del proprio corpo dopo la morte e, in caso affermativo, della sua natura. Mentre, da un lato, si ammette che tale situazione giuridica esista, non c'è, dall'altro, concordia sulla sua natura giuridica, in particolare in ordine alla sua configurabilità come diritto della personalità o come diritto reale.
Se si propende per una qualificazione come diritto della personalità si può richiamare l'art. 2 della Costituzione, che riconosce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali dove si svolge la sua personalità, e farvi rientrare anche quello relativo alla disposizione del proprio cadavere. A una simile impostazione, però, si può obiettare che la norma in questione trova applicazione per le situazioni giuridiche che fanno capo alla persona vivente, mentre la morte recide il legame sussistente tra l'uomo e il suo corpo, che con il decesso non è più il supporto della persona, ma diventa cadavere [54].
Qualora, invece, si ritenga di essere in presenza di un diritto reale, occorre innanzitutto precisare che il corpo umano si sottrae alle regole comuni del mercato. Il diritto dei familiari sul cadavere del congiunto avrebbe la propria fonte o nella pietà per il defunto, se lo si considera un bene fuori commercio, oppure in un mandato tacito per la tutela del corpo dopo la morte, trasmesso dal defunto ai parenti. Il cadavere è, quindi, una res: essendo l'alternativa tra cosa e persona, delle due l'una. Si tratta, però, di una res sui generis, che si sottrae alle norme sia di diritto privato sulle cose comuni, sia di diritto penale.
La particolarità del cadavere, infatti, consiste nel suo essere la "proiezione ultraesistenziale della persona umana" [55], quindi esso mantiene una dignità che lo differenzia da tutte le altre cose in senso giuridico.
Si può intendere il diritto dei congiunti sul cadavere in due accezioni diverse, quanto alla natura originaria o derivativa dello stesso: nel primo caso, infatti, i familiari sarebbero titolari di un diritto jure proprio, mentre nel secondo essi acquisterebbero un diritto a titolo derivativo.
Al cadavere fanno capo, in definitiva, diversi interessi congiuntamente:
- l'interesse individuale del singolo, ossia della persona vivente, alla considerazione del suo cadavere come inviolabile, in quanto proiezione della propria persona oltre la vita;
- l'interesse dei familiari, che ha per oggetto l'inviolabilità del cadavere del congiunto, in virtù dell'affetto e della pietà che essi nutrono per esso;
- l'interesse collettivo, riferibile alla società, all'intangibilità dei cadaveri, per un sentimento di pietà, legato più in generale al rispetto per i morti, principio che ha un'origine antica nel pensiero umano;
- l'interesse pubblico, di carattere igienico-sanitario, che consiste nel bisogno di eliminare i cadaveri con cerimonie funebri, in quanto rappresentano fonti di pericolo per la salute della collettività.
I prelievi da defunto trovano un fondamento di carattere politico-sostanziale in chiave di liceità in principi morali e giuridici.
Per quanto riguarda la liceità sulla base di principi etici, la morale religiosa, cattolica e non, e la morale laica la riconoscono pienamente; giuridicamente, come per i prelievi da vivente, ha rilievo la tutela della salute. Il fondamento politico-formale, invece, genera non pochi contrasti, che si sono presentati anche per l'attività medico-chirurgica in senso ampio. Sussistono dei limiti di carattere oggettivo [56], rappresentati innanzitutto dall'esigenza di tutelare la vita, diritto inviolabile, il che comporta che il prelievo debba essere diretto su di un soggetto realmente defunto.
Questo principio determina la necessità di risolvere il problema relativo alla determinazione del momento di accertamento della morte, che deve essere chiaro e univoco. Inoltre, deve essere rispettata la dignità umana, che impedisce che, dopo il decesso, si tenti di far rimanere artificialmente vivo il battito cardiaco di una persona deceduta, costringendola a una vita da "uomo-pianta", come è stata definita.
Importante è il rispetto del principio di uguaglianza e pari dignità, che prevede il divieto di trattamenti discriminatori tra gli individui, sia in rapporto all'accertamento della morte, sia in relazione alla disposizione del cadavere con modalità privilegiate dettate da una determinata posizione sociale.
Un limite di carattere soggettivo è, invece, legato all'atto di volontà del donatore in vita, che consiste nella necessità di non opposizione del soggetto stesso. Il tema è al centro della nuova normativa sulla donazione di organi, disciplinata dalla Legge n. 91/1999 [57].

 

 

[1] BENINCASA, M., Liceità e fondamento dell'attività medico-chirurgica a scopo terapeutico, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, Giuffrè, Milano, 1980, pp. 713- 715.

[2] Per una trattazione dell'attività medico-chirurgica comprendente i trapianti e l'attività di sperimentazione, MANTOVANI, F., I trapianti e la sperimentazione umana nel diritto italiano e straniero, CEDAM, Padova, 1974, pp. 40 e ss..

[3] In questo senso BENINCASA, M., Op. cit., p. 723.

[4] Prende in considerazione queste possibili alternative, rispetto alle quali si pone in conflitto, BENINCASA, M., Op. cit., p. 723.

[5] Si presenta critico nei confronti di tale impostazione MANNA, A., Trattamento medico-chirurgico, in Enciclopedia del diritto, XLIV, Giuffrè, Milano, 1992, pp. 1280 e ss..

[6] E' un'opposizione decisa quella di BENINCASA, M., Op. cit., p. 727.

[7] In senso critico si esprimono: BENINCASA, M., Op. cit., p. 724; MANNA, A., Op. cit., pp. 1282-1283; MANTOVANI, F., I trapianti e la sperimentazione umana nel diritto italiano e straniero, cit., pp. 50-52.

[8] Recita l'art. 54, 1° comma, C. P.: "Non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé od altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, pericolo da lui non volontariamente causato, né altrimenti evitabile, sempre che il fatto sia proporzionato al pericolo".

[9] Si riporta il testo dell'art. 593 C. P.:
"1. Chiunque, trovando abbandonato o smarrito un fanciullo minore di anni dieci, o un'altra persona incapace di provvedere a sé stessa, per malattia di mente o di corpo, per vecchiaia o per altra causa, omette di darne immediatamente avviso all'Autorità è punito con la reclusione fino a tre mesi o con la multa fino a lire seicentomila.
2. Alla stessa pena soggiace chi, trovando un corpo umano che sia o sembri inanimato, ovvero una persona ferita o altrimenti in pericolo, omette di prestare l'assistenza occorrente o di darne immediato avviso all'Autorità.
3. Se da siffatta condotta del colpevole deriva una lesione personale, la pena è aumentata; se ne deriva la morte, la pena è raddoppiata".

[10] Così afferma l'art. 2045 C. C.: "Quando chi ha compiuto il fatto dannoso vi è stato costretto dalla necessità di salvare sé o altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, e il pericolo non è stato da lui volontariamente causato né era altrimenti evitabile, al danneggiato è dovuta un'indennità, la cui misura è rimessa all'equo apprezzamento del giudice".

[11] In tal senso MANNA, A., Op. cit., p. 1282.

[12] E' questa l'opinione di BENINCASA, M., Op. cit., pp. 724-725.

[13] Sull'inquadrabilità del trattamento medico-chirurgico tra le attività scriminate dall'esercizio di un diritto, BENINCASA, M., Op. cit., pp. 729-730; MANNA, A., Op. cit., p. 1283.

[14] Così afferma l'art. 51, 1° comma, C. P.: "L'esercizio di un diritto o l'adempimento di un dovere imposto da una norma giuridica o da un ordine legittimo della pubblica Autorità, esclude la punibilità".

[15] E' l'opinione di BENINCASA, M., Op. cit., pp. 729-730.

[16] In tal senso, MANTOVANI, F., I trapianti e la sperimentazione umana nel diritto italiano e straniero, cit., pp. 52-53. Tra questi, PEDRAZZI, C., Consenso dell'avente diritto, in Enciclopedia del diritto, IX, Giuffrè, Milano, 1961, pp. 144-145

[17] Tra questi, PEDRAZZI, C., Consenso dell'avente diritto, in Enciclopedia del diritto, IX, Giuffrè, Milano, 1961, pp. 144-145.

[18] Per una rassegna critica di queste teorie, BENINCASA, M., Op. cit., pp. 717 e ss..

[19] Si mostra critico nei confronti di tale visione MANNA, A., Op. cit., p. 1287.

[20] Si riporta il testo integrale dell'art. 12 delle Disposizioni sulla legge in generale:
" 1. Nell'applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore.
2. Se una controversia non può essere decisa con una precisa disposizione, si ha riguardo alle disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe; se il caso rimane ancora dubbio, si decide secondo i principi generali dell'ordinamento giuridico dello Stato."

[21] La gestione d'affari è disciplinata dal Codice Civile, articolo 2028:
" 1. Chi, senza esservi obbligato, assume scientemente la gestione di un affare altrui, è tenuto a continuarla e a condurla finché l'interessato non sia in grado di provvedervi da se stesso. 2. L'obbligo di continuare la gestione sussiste anche se l'interessato muore prima che l'affare sia terminato, finché l'erede possa provvedere direttamente".

[22] La suddetta Relazione è pubblicata su Rivista italiana di diritto e procedura penale, I, Giuffrè, Milano, 1999, p. 616.

[23] In tal senso, ROMANO, M., Consenso dell'avente diritto, in Commentario sistematico del Codice Penale, I, Giuffrè, Milano, 1987, pp. 452 e ss.; MANNA, A., Op. cit., pp. 1287 e ss..

[24] Recita l'art. 582, 1°comma, C.P.: "Chiunque cagiona ad alcuno una lesione personale, dalla quale deriva una malattia nel corpo o nella mente, è punito con la reclusione da tre mesi a tre anni".

[25] L'art. 581, 1° comma, C. P., si pone espressamente al di fuori dell'ambito di applicazione della norma successiva: "Chiunque percuote taluno, se dal fatto non deriva una malattia nel corpo o nella mente, è punito, a querela della persona offesa, con la reclusione fino a sei mesi o con la multa fino a lire seicentomila".

[26] L'art. 40, 1°comma, afferma: "Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se l'evento dannoso o pericoloso, da cui dipende l'esistenza del reato, non è conseguenza della sua azione od omissione".

[27] Così recita l'art. 41, 2°comma: "Le cause sopravvenute escludono il rapporto di causalità quando sono state da sole sufficienti a determinare l'evento…".

[28] In senso critico rispetto a queste due teorie si pronuncia ROMANO, M., Op. cit., p. 452..

[29] La donazione di sangue è disciplinata dalla Legge n° 107 del 1990.

[30] Il trapianto di rene da vivente è legittimato dalla Legge n° 458, del 26 Giugno 1967, quello di parte del fegato dalla Legge 16 Dicembre 1999, n. 483.

[31] La legge n° 194 del 22 Maggio 1978 ha abrogato il Titolo X, Libro II, del Codice Penale, che incriminava l'aborto comprendendolo tra i Delitti contro la integrità e la sanità della stirpe.

[32] In tal senso PALERMO FABRIS, E., Diritto alla salute e trattamenti sanitari nel sistema penale, CEDAM, Padova, 2000, pp. 103 e ss..

[33] Per una trattazione del tema del consenso di cui all'art. 32 della Costituzione, BENINCASA, M., Op. cit., pp. 733 e ss..

[34] Così si esprime PEDRAZZI, C., Op. cit., p. 145: "La condotta consentita diventa lecita non come esercizio di un potere preesistente - diritto, facoltà o legittimazione che lo si chiami - ma per mancanza di una norma concreta che la qualifichi negativamente: meglio che lecita, irrilevante."

[35] Così MANNA, A., Op. cit., p. 1282; ROMBOLI, R., Commento all'art. 5, in SCIALOJA-BRANCA, a cura di GALGANO, F., Commentario del Codice Civile, Delle persone fisiche, artt. 1-10, Zanichelli, Bologna-Roma, 1988, pp. 249 e ss..

[36] Di trattamento medico arbitrario si può parlare a proposito del noto caso Massimo, che sarà tra poco esaminato.

[37] Corte d'Assise di 1° grado di Firenze, 18 Ottobre 1990, imputato Massimo, in Giurisprudenza di merito, 1991, II, con nota di GIAMMARIA, P., p. 1127: il consenso non sempre deve essere manifestato "in maniera sacramentale, cioè in ossequio a vacue formalità". Questo significa che, se la volontà positiva è inequivocabile, non occorre una manifestazione espressa, perché in tal caso non ci sono dubbi che possano portare a pensare ad una possibile prevaricazione da parte del medico.

[38] Corte d'Assise di 1° grado di Firenze, 18 Ottobre 1990, cit., pp. 1119 e ss..

[39] In particolare, l'intervento concordato sulla paziente, Pia Del Lago Rosanelli, di 83 anni, era l'asportazione transanale di un adenoma villoso; il sanitario, però, senza preventivamente informare la diretta interessata, ha compiuto un'operazione demolitiva di amputazione addominoperineale, dalla quale è derivata la morte della Del Lago: Corte d'Assise di Firenze, sentenza cit., pp. 1119 e ss..

[40] Corte di Cassazione, Sezione V, 21 Aprile 1992, imputato Massimo, in Cassazione penale, 1993, I, con nota di MELILLO, G., pp. 63 e ss..

[41] Sottolinea tale cambiamento PALERMO FABRIS, E., Op. cit., pp. 167 e ss..

[42] Per un caso di carente informazione da parte del chirurgo in relazione ai rischi insiti in un intervento con fini diagnostici, da cui è derivata una lesione personale, Pretura di Arezzo, Sezione distaccata di Montevarchi, 24 Marzo 1997, imputati Gervino e Attolini, in Rivista italiana di medicina legale, XIX, Giuffrè, Milano, 1997, pp. 1103 e ss.: nel caso di specie, la ricorrente ha subito un intervento di asportazione di un linfonodo, cui è conseguita una "paralisi della regione superiore del trapezio di sinistra per la lesione parziale del nervo accessorio omolaterale". Il giudice dimostra sia la sussistenza del nesso di causalità, sia il mancato rispetto delle leges artis; in questo caso, si ritiene che non sia mancata l'informazione in toto, ma che la paziente non sia stata erudita in modo soddisfacente in ordine alle implicazioni possibili dell'operazione. Perciò, gli imputati vengono condannati per eccesso colposo in una causa di giustificazione, che in questo caso è il consenso dell'avente diritto. Corte d'Assise di 1° grado di Firenze, 18 Ottobre 1990, imputato Massimo, cit., p. 1127.

[43] Corte d'Assise di 1° grado di Firenze, 18 Ottobre 1990, imputato Massimo, cit., p. 1127.

[44] Per una classificazione delle attività rientranti nella chirurgia sostitutiva, MANTOVANI, F., Trapianti, in Digesto delle discipline penalistiche, XIV, UTET, Torino, 1999, pp. 330-331.

[45] Per questa distinzione, ZAMBRANO, V., La nozione di trapianto e l'ambito applicativo della disciplina. Trattamento terapeutico, in AA.VV., Coordinamento di STANZIONE, P., La disciplina giuridica dei trapianti. Legge 1°Aprile 1999 n° 91, Giuffrè, Milano, 2000, pp. 15-16.

[46] Sul problema di un fondamento in termini di liceità dei trapianti da vivente a vivente, MANTOVANI, F., I trapianti e la sperimentazione umana nel diritto italiano e straniero, cit., pp. 40 e ss..

[47] Un esame dei limiti dei prelievi da vivente è compiuto da MANTOVANI, F., Trapianti, in Dig. disc. pen., cit., pp. 331- 332.

[48] Del trapianto di rene si occupano: RICCI, P., Aspetti medico- legali e penalistici dei trapianti di organo, in AA. VV., Coordinamento di STANZIONE, P., La disciplina giuridica dei trapianti. Legge 1° Aprile 1999 n°91, cit., p. 257; ALBEGGIANI, F., Profili problematici del consenso dell'avente diritto, Giuffrè, Milano, 1995, pp. 85- 87.

[49] E' la posizione sostenuta da: MANTOVANI, F., I trapianti e la sperimentazione umana nel diritto italiano e straniero, cit., pp. 145- 146; RICCI, P., Op. cit., p. 257.

[50] In questo senso: ALBEGGIANI, F., Op. cit., pp. 85- 87; ROMBOLI, R., Op. cit., pp. 310 e ss..

[51] Tali limiti sono analizzati da MANTOVANI, F., Trapianti, in Dig. disc. pen., cit., pp. 331- 332.

[52] Per una panoramica sul tema del trapianto d'organi nella sua evoluzione legislativa, ZAMBRANO, V., Op. cit. , pp. 3 e ss..

[53] La legge sarà illustrata per esteso nel capitolo nel prossimo articolo.

[54] Contro la qualificazione del diritto sul cadavere quale diritto della personalità, ZAMBRANO, V., Op. cit., p.7; MANTOVANI, F., I trapianti e la sperimentazione umana nel diritto italiano e straniero, cit., pp. 341 e ss..

[55] Parole testuali di MANTOVANI, F.,I trapianti e la sperimentazione umana nel diritto italiano e straniero, cit., p. 342.

[56] Sui limiti oggettivi e soggettivi, MANTOVANI, F., Trapianti, in Dig. disc. pen., cit., pp. 332 e ss..

[57] Per una trattazione estesa, si vedal'articolo di prossima pubblicazione.